mercoledì 28 febbraio 2007

Occhio che vede, cuore che duole

(venerdì 9 febbraio 2007, copyright Ore Piccole)

Tu. Quand’ero giovane e ingenuo credevo romanticamente che dire tu rivelasse al contempo una presenza e un’assenza, poiché costringeva le labbra a un movimento che era come dare un bacio all’aria circostante. Poi grazie al cielo sono cresciuto, anche un po’ ingrassato per la verità, e ho appreso che dire tu aveva tre padri nobili in letteratura. Uno, celeberrimo, era Calvino che in Se una notte d’inverno un viaggiatore ingeriva nella vita del lettore raccontandogli quello che stava facendo come se lo sapesse meglio di lui. Il secondo, misconosciuto e capovolto, era il Chamisso de La meravigliosa storia di Peter Schlemihl nel quale la narrazione è in prima persona ma a un bel punto la voce narrante piglia e si sdoppia rivolgendosi esplicitamente all’autore: “Oh, mio buon Chamisso, voglio sperare che tu non abbia ancora dimenticato che cosa è l’amore!”. Il terzo, infine, il Baudelaire che apostrofa l’ipocrita lettore suo simile e fratello. A nessuno di loro ha attinto Anne Godard, trentacinquenne parigina che vorrei invitare a cena, per esordire col romanzo Inconsolabile (Neri Pozza, 2007) tutto narrato in seconda persona.
A differenza di Baudelaire, Anne Godard non fa alcun riferimento al lettore, pare anzi fingere che questi non ci sia e - nel mio caso specifico - mi fa sentire in felice colpa come un tizio che origli e ficchi il naso in un poeticamente ritmato dialogo di comari, di cui si riesce a sentire soltanto una metà. La voce narrante non è quella del protagonista che si rivolge all’autore, come in Chamisso, ma quella dell’autrice che si rivolge alla protagonista. Anni luce lontana da Calvino, infine, Anne Godard non ha optato per la narrazione in seconda persona come artifizio letterario ma come migliore e forse unica maniera per presentare oggettivamente e soggettivamente, dall’esterno e dall’interno al contempo, il dolore che la protagonista condivide necessariamente con l’autrice che l’ha creata.
La storia è facile, il romanzo è breve. Una donna perde suo figlio in circostanze non chiare; invecchia progressivamente ma con la mente e lo sguardo costantemente rivolti al momento della perdita e alla ignota felicità che l’ha preceduta. È dunque come se per lei il tempo passasse inesorabile e al contempo si fosse fermato; inconsolabile, lo dice la parola stessa, è infatti colui nella cui vita s’è verificata una rottura, uno iato, uno sbrego irreparabile che lo porta a considerare il tempo successivo come un’inutile tortura e il tempo precedente come un irraggiungibile rimpianto. La protagonista alla quale si rivolge Anne Godard vive una temporalità spezzata; di là, un’immaginaria età dell’oro nella quale anche le piccole miserie del suo figlio adolescente vengono mitizzate e indorate; di qua, il progressivo allontanamento del marito dapprima, quindi degli altri figli che crescono e infine degli amici che - inevitabilmente - iniziano a dimenticare di telefonarle a ogni anniversario della disgrazia, perdono giocoforza i contatti con un mondo chiuso e autoreferenziale che, passato il santo, non è più il loro, non vive più del loro tempo che va avanti, immarcescibile.
Anne Godard è brava. Sa scegliere le parole, sa pesarle, posarle e disporle ottenendo una scrittura martellante; sa altrettanto che di madri infelici è pieno il mondo letterario, e sa pure che ogni madre perde suo figlio senza bisogno che questi muoia né che scappi di casa con la scusa dell’università o del lavoro. Il continuo tu di Anne Godard, che accompagna il lettore per centoquindici pagine finché non si distingue più chi narra chi legge e chi vive nel romanzo, è un indice infilato nel costato della storia, un dito estraneo che scava in un’innaturale apertura del corpo, dove la vita della madre si separa definitivamente da quella che ha portato in grembo per nove mesi e che s’è illusa di poter proteggere e avvolgere negli anni e in eterno. È talmente precisa la volontà dicotomica di Anne Godard e della sua seconda persona che pare alle volte di sentire la voce del Dio veterotestamentario che al contempo ordina e indica e racconta quello che accade secondo i suoi stessi precetti.
L’occhio narrante di Anne Godard può essere dappertutto, ma sceglie di seguire ossessivamente la vecchia protagonista, di accompagnarla gradino dopo gradino nei suoi definitivi decadenza e sotterramento. Anche dopo molte settimane dalla lettura del libro - così come accade nel mio caso, in questo momento - basta dare un’occhiata alla copertina per sentire nuovamente il metronomo della seconda persona, per ritrovarsi immersi nel tempo di un mondo creato esclusivamente dalle parole.
L’occhio narrante di Anne Godard poteva essere lacrimoso come la storia che narra, e aggiungere dolore al dolore; invece, con soluzione più che brillante, sceglie di essere indifferente, di più, sceglie di essere ironico e di mostrare in tutta nettezza la distanza incommensurabile fra il dolore vissuto, quello della protagonista che vi è conficcata fino ai capelli, e il dolore osservato, quello del lettore che sa benissimo come, una volta chiuso il libro, non ci saranno più madri depresse né figli deceduti né mariti fuggitivi. Il dolore narrato da Anne Godard è il solido ponte che collega i due mondi apparentemente inconciliabili: quello dei personaggi costretti a vivere in infinita ripetizione gli accadimenti narrati, e quello dei lettori consapevoli che la narrazione altrui è una parentesi conchiusa nei fatti propri.Quand’ero giovane e ingenuo invece di ubriacarmi drogarmi e mettere incinta la qualsiasi provvedevo a farmi regalare libri tipo Le Poetiche di Joyce, in cui Umberto Eco richiama e illustra la distinzione dal sapore tomistico fra tre generi - lirico epico e drammatico - esposta nei resti bruciacchiati dello Stephen Hero. Leggiamo. La forma lirica è “il più semplice rivestimento verbale di un attimo di emozione”, vulgo la narrazione in prima persona, sentimentale autoreferenziale o blogghistica che sia; la forma drammatica “riempie i personaggi con una forza vitale tale che assumono una vita estetica propria e intangibile”, vulgo la narrazione in terza persona, onnisciente e dickensiana, che è quello che crea raccontando. Infine, nelle parole di Eco/Joyce la forma epica “perviene all’equidistanza fra poeta lettore e centro emozionale”: esattamente quello che avrebbe fatto Joyce cresciutello con l’Ulisse, quello che aveva fatto Flaubert, il Dio-narratore che si limava le unghie ammirando la propria creazione, quello che ha fatto lucida e tagliente Anne Godard, estraendo fra tutti i possibili esordi, tanto per gradire, un gran romanzetto epico quale da tempo non se ne fanno più. Chapeau.

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