domenica 25 marzo 2007

Vano tentativo di spiegazioni con una hostess delle British Airways


(copyright Ore Piccole)


“Come sarebbe a dire al massimo ventitrè chilogrammi?”

Ora, quando prendo l’aereo io vivo nella convinzione che sia necessario portarsi appresso tutta una serie di cose inutili, e che i nuovi limiti imposti su suolo britannico – peraltro inevitabili vista la recente stronzaggine degli attentatori più vari – abbiano un che di profonda ingiustizia che mi colpisce nell’intimo. Tanto per dire, partendo per l’Inghilterra ho dovuto separarmi da tutta una serie di oggetti fondamentali, dalla bandiera tricolore al crocifisso, tratti distintivi senza i quali potrebbe anche sembrare che in camera mia viva un turcomanno, un gangaride o addirittura un francese progressista. Per non parlare della disperante ricaduta di queste limitazioni sul vestiario, così da consentirmi di portare, poniamo, una quantità teoricamente infinita di cravatte ma non più di due giacche eleganti (sarà per questo che presto o tardi inizierò a indossare le cravatte a due o tre per volta); oppure, poniamo ancora, o le scarpe da tennis (calzo 44, fate un po’ voi) da indossare sotto degli abiti sportivi o degli abiti sportivi da indossare sopra le scarpe da tennis. Rassegnatomi ad andare in giro come un guitto – come d’altronde chiunque altro in Inghilterra – con maggiore riluttanza ho accettato l’idea blasfema di portarmi appresso giusto due maglioni da abbinare a una quantità sconsiderata di camicie, lasciando presagire che dovrò lavarli molto spesso e che quindi, per reazione uguale e contraria, finirò per non lavarli mai – come d’altronde chiunque altro in Inghilterra. Ma a tutto sono pronto, davvero, pur di riuscire a passare il check-in.

“Come sarebbe a dire che supera le misure consentite?”


Gli inderogabili limiti di grandezza previsti sul bagaglio a mano sono un altro flagello del Signore. È noto che sono sempre leggermente inferiori alla dimensione del bagaglio a mano che mediamente viene venduto come sicurissimo a essere portato sull’aeromobile – questo perché ogni volta inizia una interminabile diatriba scolastica (ossia quaestio quodlibetalis) riguardo all’evenienza che la maniglia debba o meno venire conteggiata nella misurazione dell’altezza, o al caso in cui la presenza di un oggetto soffice nella tasca anteriore debba essere considerata in base alla sua dimensione compressa o spiegata. Per non parlare del trucchetto, applicabile soltanto fino a un certo punto, non solo di indossare contemporaneamente capi sufficienti a cambiarsi per tre o quattro giorni (“Be’, cosa c’è da guardare? In Inghilterra fa un freddo cane e io mi premunisco”) ma anche di infilarsi nelle tasche oggetti la cui dimensione varia dal tubicino di Efferalgan® alla tenda da campeggio varie volte ripiegata su sé stessa.


“Come sarebbe a dire che c’è un’indebita escrescenza?”


Mancano ben più di due ore al mio volo pertanto c’è tempo sufficiente a investigare e a scoprire che l’indebita escrescenza sulla parte anteriore del bagaglio a mano consiste nella copertina rigida di Fuoco, Vento, Alcol, l’ultima raccolta di racconti di Alessandra Montrucchio pubblicata testé da Marsilio e infilata in extremis dopo la notte insonne, verso le sei e cinque del mattino, in avanzato stato allucinatorio e su precisa indicazione di Mosè redivivo. La hostess di terra mi guarda interrogativa. “Ah, questo. Senta, ho appena iniziato a leggerlo e devo recensirlo. Lo so che non è un romanzo e che quindi potrei anche lasciarlo mezzo letto su suolo Italiano per poi riprenderlo e finirlo quando tornerò fra due, tre, quattro mesi o quando Cristo vorrà. Se non che io non riesco mai a lasciare un libro a mezzo, neanche temporaneamente, e soprattutto non riesco a iniziare un nuovo libro se non ho finito quello di prima, e quindi questo comporterebbe che io stia due (o tre, o quattro) mesi senza leggere a single fucking page, cosa alla quale non sono certo di riuscire a sopravvivere, anzi, sono certo di non riuscire a sopravvivere. La prego, sono nevrotico, non dormo da tre notti e le mie fidanzate hanno sempre votato per partiti ridicoli, abbia pietà.”


(Intermezzo. Allora uno dice: se temevi che le regole d’imbarco della British Airways fossero troppo rigide e restrittive per uno che in fin dei conti è pur sempre un Italiano, perché non hai deciso di volare con Alitalia? Allora io rispondo: perché non ero sicuro che l’Alitalia non fallisse prima che io atterrassi.)


Le hostess della British Airways, oltre ad essere le meglio vestite di tutti i cieli, sono anche particolarmente colte e attente alle nuove tendenze della narrativa contemporanea. Godono inoltre di spiccato senso pratico e provano sottile piacere nella tortura psicologica qualora il cliente si trovi dalla parte del torto, come a me accade dal 1980 in cui nacqui. Nello specifico, l’hostess deputata al mio imbarco – dopo aver ostentatamente dimostrato che proprio l’indebita escrescenza impediva al bagaglio a mano di entrare nella scatoletta per comprovarne la corretta dimensione, e soprattutto dopo aver alzato il sopracciglio sinistro nell’apprendere che io, ridicolmente vestito qual ero, dovevo recensire i racconti di Alessandra Montrucchio – ha finto di venirmi incontro proponendomi una soluzione di compromesso. Visto che la copertina è rigida come il cadavere del papanonno, arguiva, e visto che presumibilmente dovevo recensire (nuova levata di sopracciglio) il libro e non la copertina, be’, una ragionevole soluzione sarebbe stata quella di strappar via la copertina e riporre il resto del libro nel bagaglio a mano.


Ciò fatto, tuttavia, ci siamo accorti che il resto del volume costituiva tuttavia un’indebita escrescenza, benché di dimensioni più limitate (parentesi: so che internet è pieno di porci come me pertanto vi prego di non fare battutacce sulle indebite escrescenze di dimensioni limitate). La hostess della British Airways, avendo ovviamente già letto il libro per meglio rimarcare la mia mancanza, piglia e fa: “Temo che sia necessario operare delle scelte, signor Gurrado A, se vuole comunque portare il libro con sé. Tuttavia non si preoccupi, perché mi pare che in questo caso la scelta, benché dolorosa, sia quasi giustificata dalla struttura stessa del volume.” “Scusi, signorina hostess, in che senso giustificata, in che senso struttura?”


La hostess sbuffa e argomenta: “Vedo, signor Gurrado A, che nonostante lei rimarchi continuamente il suo dovere di recensire questo libro, mi vedo costretta a farlo io poiché lei da due pagine e nove capoversi sta dicendo capitali fregnacce ma non una parola su Alessandra Montrucchio, la cui prosa merita molta più attenzione di un bagaglio a mano. Dunque, il titolo stesso del libro suggerisce che esso è tripartito come una pala d’altare, che chiusa è una e aperta sono tre; il Fuoco, il Vento e l’Alcol danno il nome a ciascuna delle tre parti. La prima parte, Fuoco, costituisce la trilogia dell’amore letterario; la seconda, Vento, la trilogia delle fiabe non raccontate; la terza, Alcol, piuttosto prevedibilmente la trilogia elitica, e lei ben lo sa a giudicare dal suo alito - gone out boozing with friends, haven’t you?”.


Sorvolo con un vago cenno del mento sui miei trascorsi durante gli ultimi giorni prima della partenza e mentre dietro di me inizia a formarsi una fila la prego di spiegarsi meglio. “Sarebbe a dire che ogni parte racchiude in sé un aspetto del senso dell’intera raccolta, e che al contempo l’intera raccolta trae senso dalla completezza interna di ciascuna sua parte...” “Come un’anguria?” “Cyril Connolly non la metterebbe così ma per quanto ingenua la metafora funziona. Per facilitare il mio compito e il suo lavoro, signor Gurrado A, dovrebbe scegliere uno fra Fuoco, Vento, Alcol, attenendosi agli stessi dettami che l’autrice le propone – ha presente la sineddoche, ha presente la parte per il tutto, insomma in gioventù lei ha frequentato un liceo o ha pascolato le pecore?”


Scelgo Fuoco. Scelgo Fuoco non solo perché sono dannunziano dentro, né solo perché i tre titoli da cui è composta (Fiore di lago, Cronaca di una storia qualunque, Tre armi) suonano più evocativi, ma soprattutto perché – “Sì, sì, lo sappiamo, signor Gurrado A; soprattutto perché Alessandra Montrucchio ha già dimostrato (ad esempio in Cardiofitness, che gira e rigira è uscito quasi dieci anni fa) di avere un talento non comune nel gestire le storie interpersonali, bilanciando i punti di vista, creando differenti versioni della stessa realtà, puntando la lente d’ingrandimento contro i dettagli più insignificanti e al contempo irrinunciabili per l’evoluzione, anzi, la degenerazione di una storia d’amore o di qualsiasi altro genere di rapporto interpersonale. Questo è vero, ma non rende giustizia alle acrobazie linguistiche della Montrucchio nella parte etilica (sono sicuro che anche lei, signor Gurrado A, quando è ubriaco compie delle acrobazie linguistiche, ma preferisco non apprendere di quale genere né con chi); soprattutto non rende giustiszia all’innovativa narrazione delle tre fiabe non raccontate, dove si apprende che fine fa Geppetto e in cosa ha sbagliato i suoi calcoli Cenerentola e soprattutto chi pettinava ogni giorno la Bella Addormentata nel Bosco, caso mai arrivasse il Principe Azzurro.”
Con ciò siamo a posto, penso. Faccio per rimettere Fuoco, Vento, Alcol nella tasca anteriore del bagaglio a mano e tento di oltrepassare lo sbarramento, se non che la hostess di terra nuovamente mi fa notare un’indebita escrescenza, impercettibile quantunque, ma pur sempre indebita. “Questo perché, mi spiega, lei non è molto intelligente” (infatti sono laureato in filosofia) “e delle tre parti ha scelto la più voluminosa, ottantuno pagine contro quarantaquattro e contro cinquanta. Siamo dunque punto e a capo: poiché ciascuna delle tre parti è composta da tre racconti secondo un sofisticato gioco di architetture interne, e potendo portare con sé in aereo non più di una cinquantina di pagine, quale dei tre racconti sceglie il signor Gurrado A?” Sorvolo sul tono di esplicito dileggio (e sullo sguardo severo che la rassomiglierebbe al ritratto di Alessandra Montrucchio in terza di copertina, non foss’altro che la copertina rigida è stata gettata via per i meandri di Linate, e che probabilmente già costituisce cibo per turisti giapponesi) e, scegliendo alla cieca fra i titoli sull’indice, punto il dito su Cronaca di una storia qualunque. “E perché mai?” “Perché è il più lungo, perché è quello che sta in mezzo (e quindi la chiave di volta), perché visto che lo devo recensire penso che la bravura di un autore emerga più nettamente quando la trama è, come lascia presagire il titolo stesso, di tono assolutamente ordinario e quindi non consente a un cronista di camuffarsi da scrittore.”


“Forse fa bene, forse no, chi lo sa. Insomma è la storia di Andrea che giovanissimo sposa Rosaria perché l’ha messa incinta, però ama Giulia; ama Giulia però deve non solo sposare Rosaria ma anche e soprattutto cercare un lavoro per provvedere al mantenimento di lei e della creatura, così che la sua vita ordinaria - scandita dall’apparentemente semplice ma in realtà imperioso (e impietoso) utilizzo che la Montrucchio fa delle date altrimenti qualunque della vita, il 19 marzo 1998, il 24 dicembre 2001, il 3 novembre 2005 e così via – sarebbe di squallore indicibile se la sola fantomatica presenza di Giulia, la sola eventualità di poterla prima o poi rincontrare (la incontra? non la incontra? sono sadica e non lo dirò), la speranza che una nuova storia rimedi a quella vecchia e bolsa costituisce un’apertura di possibilità, un periodo ipotetico, una ragione di vita. D’altronde chi non ha un’alternativa alla quale ha dovuto rinunciare, chi non ha una Giulia che ha giocoforza smesso di inseguire per abbracciare la vita semplice, la retta via, la porta larga? Tenga, signor Gurrado A, il suo biglietto per Heathrow e faccia buon viaggio.”


Silente e sbalordito, infilo i brandelli di Fuoco, Vento, Alcol (anzi, ormai solo Fuoco, e manco tutto) nella tasca anteriore del bagaglio a mano, pensieroso supero il metal detector e mostro la carta d’identità (la cui fototessera non rende giustizia alla mia avvenenza), infine mi avvio verso il gate B28, ma vengo rincorso da un’ispettrice di polizia aeroportuale. “Mi scusi, va in Inghilterra, lei?” “Ci provo, se non altro.” “Posso controllare il suo bagaglio a mano? C’è un’indebita escrescenza.” Annichilito, le porgo il tutto. Lo posa sul suo tavolino, apre la cerniera, solleva l’asciugamano che ne copre l’intera larghezza e fa: “Ma quella cos’è?”, indicando la Bibbia. Svengo.


[Nota per i boccaloni: tutto ciò non è mai avvenuto, o meglio è avvenuto soltanto nella mia nevrotica immaginazione durante l’agitatissima notte prima di decollare, nel corso della quale – verso le quattro meno dieci – ero giunto alla conclusione che l’unica maniera per salvare capra e cavoli fosse infilare ventitrè chili del mio corpo mortale (la capra) nella valigiona e comprimere i restanti, ehm, cinquanta, ehm, cinquantacinque chili (i cavoli) nel bagaglio a mano. Quanto alle hostess della British Airways, sono carinissime e imbarcandomi per primo si sono inevitabilmente tutte innamorate di me, salvo poi mostrare severo disprezzo quando, a mezz’aria, una lieve turbolenza mi ha proditoriamente infilato il naso nella tazza di caffè.]

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