giovedì 19 aprile 2007

Tragicommedia in una ferita

Con la sua ferita alla gamba, a seguito dell’incidente stradale sul quale si apre il romanzo, il protagonista di Niente da Ridere sembra subito una riedizione postmoderna della figura tragica di Filottete. L’eroe classico, per via di una piaga purulenta, veniva abbandonato dai suoi amici sull’isola di Lemno, dalla quale cercavano poi di riscattarlo blandendolo per farsi perdonare coi più vari sotterfugi. Gregorio Parigino, l’io-narrante cui Livio Romano dà voce, a prima vista non sembrerebbe essere abbandonato, vista la pletora di persone che gli si affanna attorno dalla convalescenza in poi; la sua vita anzi si direbbe sovraffollata, fra una moglie, due figlie, un labrador obeso, una mamma scimunita, una nonna combattiva, un’amica invadente, uno zio scialacquatore e, per non farsi mancar niente, anche un’amante imprevista.

Eppure Gregorio Parigino, insegnante salentino e corsivista saltuario, vede progressivamente frapporsi una distanza incolmabile fra sé e tutte le persone che lo pressano d’intorno. Il suo abbandono, psicologicamente più sottile rispetto a quello fisico di Filottete, consiste nel non riuscire a sentirsi adeguato a un mondo che va troppo in fretta e che gli richiede un’attenzione spropositata, salvo poi non ricambiarlo e accusarlo reiteratamente di egocentrismo e immaturità. Si trova preso in un gorgo di speranze deluse perfettamente incarnato dalla vita politica locale: individuato in lui il candidato ideale, il partito dei Verdi dapprima lo seduce e quasi lo forza ad impegnarsi in prima persona; salvo poi, passate le elezioni, lasciarlo andare alla deriva e voltargli le spalle tradendone la fiducia.

Di fronte al progressivo abbandono, o meglio di fronte al progredire della distanza fra sé e chi lo circonda, più di una volta a Gregorio Parigino pare di non essere più lo stesso. Esistono, infatti, due protagonisti: il Gregorio Parigino reale, per così dire, e il Gregorio Parigino percepito. Per fare un esempio pratico, al momento di farsi fotografare per la campagna elettorale, il Parigino pubblico si sente dire che è affascinante come pochi; al momento dello sviluppo delle foto, ingrandendone i dettagli digitali, al contrario il Parigino privato si vede triste, ripugnante, improponibile: e questo è, ai suoi stessi occhi, il Gregorio Parigino reale. Se la sua amante lo ritiene somigliante a Nicholas Cage, sua moglie non fa altro che rimproverargli il progressivo decadimento psicofisico; se dopo l’incidente sente bisogno di una lunga convalescenza, parenti e amici fanno a gara a sovrapporre le proprie esigenze alle sue. Di fronte a uno specchio, prima ancora della propria immagine riflessa Parigino vedrebbe la crepatura sulla superficie.

Livio Romano si è abilmente infilato in questa crepatura, in questa distanza che per tutti i personaggi è impercettibile ma che al protagonista appare insormontabile. Chi ha letto le sue opere precedenti si renderà facilmente conto che Niente da Ridere riesce a miscelare brillantemente gli spericolati esperimenti linguistici di Mistandivò (Einaudi 2001) con la satira e l’impegno sociale di Porto di Mare (Sironi, 2002). Questi ultimi cinque anni non sono passati invano: oltre a dare notevole spessore – anche quantitativo – alla trama di Niente da Ridere, Livio Romano ha così potuto riconsiderare alcune convinzioni, tanto formali quanto contenutistiche, che nelle sue due opere precedenti talvolta apparivano tagliate troppo di netto.

Da un lato infatti Romano viene incontro al lettore moderando i suoi primi ardimenti semantici che non di rado rendevano necessaria una rilettura più concentrata. Dall’altro canto, la tragica distanza che Parigino interpone fra sé e un mondo che sembra crollargli addosso consente a Romano di temperare le (per quanto giustificate) arrabbiature impegnate che avrebbero altrimenti rischiato di mettere in ombra la trama. Il raggiungimento di questo saggio equilibrio permette a noi lettori di avere per le mani un romanzo ben costruito, che si legge piacevolmente e che fa pensare senza essere mai stucchevole; mentre all’autore permette di riverberare la propria indubbia crescita sulla precipitosa maturazione alla quale Parigino è costretto dagli eventi.

Il ritmo forsennato di Niente da Ridere, che si sviluppa in lunghi capoversi paratattici, di tanto in tanto si interrompe e si distende: accade quando, travolto dalla propria stessa vita, Parigino si affida all’Alprazolam, un ansiolitico fenomenale nel tamponare immediatamente gli attacchi di panico ma che a lungo andare crea dipendenza e inevitabili sbalzi d’umore. Il maggior pregio tecnico di Niente da Ridere consiste proprio nella prosa di Romano, che riesce a rendere perfettamente l’idea di quest’alternanza fra consolazione e angoscia, finché non arriva il momento in cui (poco dopo la metà del romanzo) Parigino deve riuscire a sbrigarsela da solo.In quel momento, recluso nella casetta di campagna come Filottete sull’isola, capisce che la pasticchetta quotidiana è un supporto inutile se non viene accompagnato da uno sforzo interiore, e che la propria vita consiste, come quella di ogni uomo, nella continua ricerca di un Senso, con tanto di esse maiuscola. Per fortuna, tuttavia, Livio Romano è un narratore troppo furbo, e troppo divertente, da poter concludere la propria tragedia postmoderna su una morale precostituita: allora Parigino prende un’altra pillola e per la nostra gioia il romanzo continua.

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