mercoledì 23 maggio 2007

Il gioco dell'otto

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

Avevo otto anni e al primo goal di Gullit andò via la luce. O meglio, la luce scelse di andare via un attimo prima che ci fosse il goal, fulminandoci sull’immagine di lui che, avanzato sornione verso il centro dell’area, muoveva senza sforzo apparente la gamba destra per accompagnare la palla nella porta sguarnita dello Steaua; lasciandoci incerti se il goal fosse veramente diventato un goal (ma certo che era un goal, la porta era vuota, la palla andava dritta dentro) e al contempo certissimi che con un colpettino, piano piano, a porta vuota, Gullit aveva cambiato l’inerzia della partita, del Milan, della mia esistenza e della storia tutta.
(Barcellona, 24 maggio 1989: Milan 4 – Steaua Bucarest 0)

Avevo nove anni e il Benfica fu un pensiero che mi assalì d’improvviso, nel tardo pomeriggio, tornando a casa dal catechismo. Il tempo di citofonare era stato lo spartiacque fra la giornata comune (la scuola, il pranzo, la chiesa) e la giornata particolare, unica, cioè la finale; e, al contempo, il nanosecondo in attesa che mi venisse aperto il portone già mi aveva fatto capire che la finale non era unica perché era una replica dell’anno prima, e non era una replica perché ogni volta è un’emozione, anzi un terrore a sé stante, che con maggiore o minore resistenza si trascolora in vittoria.
(Vienna, 23 maggio 1990: Milan 1 – Benfica 0)

Avevo dodici anni e imparai la tragedia. Nell’intervista poco prima della partita, già sul campo di Monaco, Berlusconi aveva dichiarato che era come aspettando un figlio: sono tutti importanti ma dopo il primo il nervosismo cala inevitabilmente, diventa consuetudine. Figuriamoci il terzo, pensai, tanto più che ero forte dei due esempi precedenti grazie ai quali, qualsiasi cosa accadesse, quale che fosse l’avversario definitivo che si andava a scoprire, alla fine vinceva sempre il Milan con la sua bianca maglia di riserva. Mi sedetti tranquillo e li vidi entrare in campo vestiti di rosso e nero.
(Monaco di Baviera, 26 maggio 1993: Milan 0 – Olympique Marsiglia 1)

Avevo tredici anni, avevo pochi brufoli e avevo paura del Barcellona. Iniziavo a capire di calcio più di quanto lo amassi, e per guardare una partita ci mettevo più cervello che trasporto, passaggio che segna definitivamente la fine dell’infanzia, un po’ come quando si capisce che Babbo Natale non esiste e che quindi i regali provengono da Gesù Bambino. Ovviamente, nell’occasione, il cervello non era mio ma dei vari opinionisti i quali a loro volta non facevano che riportare le opinioni di Crujff, persona che non ha mai brillato per umiltà (avendone ben donde, peraltro) e che all’epoca allenava il Barça, quindi era vagamente di parte. Per la prima volta, distintamente ricordo di aver accettato a priori l’eventualità della sconfitta e di aver perfino dichiarato che tanto valeva guardare su Rai3 la diretta del voto di fiducia alla Camera al governo, tanto per restare in argomento, Berlusconi. Prima di pranzo, sul pullman che mi riportava a casa, un compagno di scuola disse: “Secondo me, se Zubizarreta non è in giornata, possiamo anche fargliene tre o quattro”; scendendo, risposi: “Ma va’”.
(Atene, 18 maggio 1994, Milan 4 – Barcellona 0)

Avevo quattordici anni e fingevo di collaborare a una rete televisiva locale. Nutrendo una smodata passione per il Milan, e facendo ben poco per tenerla nascosta, un’ora prima del telegiornale delle otto (edizione di quasi cinque minuti) mi avevano dato libera uscita per prepararmi in santa pace alla visione, esprimendo parimenti un intrinseco commento sulla mia utilità in loco. Ne approfittai ben felice, con l’ottimismo dei ginnasiali, contando sul fatto che se avevamo massacrato il Barcellona potevamo ben superare l’Ajax, che per quanto siano scricchiolanti le premesse alla fine il bene (cioè il Milan) vince sempre e soprattutto che stando a fonti certe avremmo di nuovo giocato in bianco. Iniziai a festeggiare e accesi la tv.
(Vienna, 24 maggio 1995, Milan 0 – Ajax 1)

Avevo ventidue anni e non ci speravo più: le finali mi sembravano un ricordo lontano, confinato all’infanzia all’adolescenza e agli anni trascorsi a Gravina. Tanto per dire, per l’università mi ero trasferito a Pavia da cinque anni e nella circostanza specifica ero a Roma da un amico, milanista anche lui; per non intristirci guardando la partita da soli, ammalati entrambi dello stesso scetticismo, avevamo raggiunto altri cinque o sei amici a casa loro. Tutti, tutti juventini. Dopo pochi minuti io e il mio amico urlammo perché avevano annullato un goal a Shevchenko. Nell’intervallo mangiammo un’ottima e abbondante insalata di riso. Subito dopo urlarono gli juventini per una traversa di Antonio Conte. Ai rigori, gentlemen’s agreement, patto fra gentiluomini: qualunque cosa fosse accaduta, ma proprio qualunque, compresi l’invasione degli ultracorpi e il diluvio universale, tutti ma proprio tutti avremmo conservato il silenzio per rispetto della sofferenza altrui, milanisti e juventini. Non una parola: e alla fine mi trovai a urlare con il mio amico, chiuso nel bagno di una casa nella quale ero entrato per l’unica volta nella mia vita.
(Manchester, 29 maggio 2003, Milan 0 – Juventus 0, poi 3-2 ai rigori)

Avevo ventiquattro anni e ci avevo fatto l’abitudine. Buona parte dei miei amici modenesi l’avevo conosciuta guardando con loro le partite dei turni precedenti e alternando le presentazioni vicendevoli a salaci commenti sulla discutibile creatività di Serginho. Dovendo guardare la partita in una sala tv pubblica, mi ero garantito la prima fila sistemandovi il mio deretano un’ora prima del calcio d’inizio, e bene avevo fatto perché mi sarebbe bastato arrivare con cinquanta secondi di ritardo, poniamo, e non avrei visto il primo goal di Maldini in sette, e dico sette, finali di Coppa dei Campioni. Avrei anche potuto andarmene fra il primo e il secondo tempo, poniamo, dopo che al goal del 3-0 avevo percorso la distanza fra me e la tv strisciando sulle ginocchia come davanti a una reliquia, quando uno dei vari interisti che mi capita di conoscere mi apostrofò: “Congratulazioni, ormai…”; e io: “Aspettiamo i supplementari.”
(Istanbul, 25 maggio 2005, Milan 3 – Liverpool 0, no, Milan 3 – Liverpool 3, poi 2-3 ai rigori)

Ho ventisei anni e sono a Oxford da due mesi.
(Atene, 23 maggio 2007, Milan – Liverpool).

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