martedì 30 settembre 2008

Il giorno dei giorni

(Gurrado per Quasi Rete)


U’ ben s’impingua se non si vaneggia.

(Dante, Paradiso X, 96)

A veder tanto non surse il secondo.
(Dante, Paradiso X, 114)

È, banalmente, questione di gusti. C’è chi si alza a un orario estremamente antimeridiano per guardare quattro fessacchiotti che s’inseguono in moto, e tifare perché vinca il più fessacchiotto di tutti. Chi invece pranza in fretta e furia al solo scopo di trascorrere mezzo pomeriggio a bocca aperta di fronte a un Gran Premio fuori orario, in cui un brasiliano di Cerignola sradica pompe di benzina e un afflitto finlandese vede una curva a gomito ma pensa bene di tirare dritto. C’è infine chi sacrifica la domenica sera all’altare di San Siro, traendo da un’ora e mezza di pedate materiale sufficiente a sfottere amici e sconosciuti fino al prossimo 15 febbraio, poi Dio provvede.

Ma tutte queste faccende, notabili quantunque, assommate l’una all’altra per me non hanno avuto più appeal di una gara di salto del ranocchio, al cospetto del Mondiale di Ciclismo – la corsa di un sol giorno e di un giorno intero che ha congiunto in una domenica straordinaria l’alba del MotoGP col meriggio di Singapore e la notte di Milan-Inter.

Il Mondiale è una corsa dantesca, in cui Inferno e Paradiso sono due estremi talmente vicini da toccarsi quasi, a portata di pedivella in ogni istante delle sue sette ore. È una corsa mastodontica, l’unica in cui i partecipanti superino le duecento unità (domenica 205, con l’aggiunta di Leipheimer che non è partito); è irripetibile, perché il percorso cambia ogni anno; è ossessionante, perché costringe a ripetere per dieci, dodici, quindici volte esattamente la stessa salita, le stesse curve, lo stesso mal di gambe; è atipica, perché viene suddivisa per squadre nazionali invece che per sponsor, e questo cambia tutte le carte in tavola; è infingarda, perché sui pantaloncini resta comunque ben visibile lo sponsor e questo cambia ancora di più tutte le carte in tavola; è massacrante, perché fa pedalare per più di 250 chilometri; è capricciosa, perché la vittoria potrebbe concedersi a chiunque; è ingestibile, perché tutti aspettano di fare la seconda mossa; è imprevedibile, perché non si adegua a gerarchie prestabilite; è ingiusta, perché regala al più forte di un sol giorno il diritto di indossare la maglia iridata per tutto l’anno, fino al Mondiale successivo; è crudele, perché arrivare secondo o duecentesimosesto in fin dei conti è la stessa cosa.

Il Mondiale è una corsa bella e terribile come un esercito schierato a battaglia (tranquilli, non è mia). Da una ventina d’anni lo guardo fedelmente in versione-fiume e ho visto vincere geni del pedale (Freire) e onesti comprimari (Brochard), carneadi imbarazzanti (Vainsteins) e campioni ai quali non mancava altro (Musseuw). L’hanno vinto favoriti su cui non si accettavano scommesse (Cipollini), seconde punte (Olano), grandi incompiuti (Leblanc), guardie svizzere (Camenzind), tizi che potrebbero fare di più se si impegnassero (Boonen). È stata l’unica corsa vera vinta da Lance Armstrong, nel lontano 1993. Vincerlo due volte di fila è praticamente impossibile, tant’è vero che l’ho visto fare solo a degli italiani (Bugno prima, Bettini poi). È come una scienza incontrollabile che più esperienza si accumula più risulta sfuggente e incomprensibile.

Domenica il Mondiale non ha voluto smentirsi, nel giorno del sovvertimento di ogni ordine stabilito (Valentino Rossi che vince, pompe di benzina che volano, Ronaldinho che segna di testa): perché, veniva da domandarsi, lasciano guadagnare venti minuti a tre signori che di mestiere forse non fanno nemmeno i ciclisti? Come mai Bettini scatta a cinque giri dalla fine? Che ci fa mezza Italia in fuga? Quand’è che la Spagna organizza una controtattica, dopodomani? Perché gli inseguitori, invece di recuperare i trenta secondi dai fuggitivi, a mezzo giro dalla fine iniziano a scambiarsi strette di mano e pacche sulle spalle, e a organizzare la festa d’addio per Bettini che intanto se li bacia tutti come l’ultimo degli assessori democristiani?

Ma soprattutto ero attanagliato da una ridda di interrogativi riguardo a Damiano Cunego – che si ritrovava nel gruppo di testa a pochi chilometri dal traguardo, con due compagni di squadra a supportarlo, con avversari in fin dei conti mediocri a riprova della totale illogicità e follia del Mondiale d’un giorno solo. Stai a vedere, mi dicevo, che dopo un intero anno gettato al vento va a vincere proprio oggi e può pavoneggiarsi nell’iride per trecentosessantaquatro giorni uno dietro l’altro. Cunego sembrava Bugno, il quale nel 1992 preferì saltare il Giro d’Italia per concentrarsi sul tentativo di vincere il Tour de France, gli andò peggio del previsto, sbagliò del tutto la preparazione che gli mandò a carte quarantotto il resto della stagione e arrivò all’ultimo atto, il Mondiale appunto, con l’alternativa di vincerlo o dichiarare fallimento. Era fuori forma, era sfiduciato, era perfino il campione in carica e di conseguenza il meno indiziato a vincere. Vinse e salvò l’anno.

Tre secondi, su duecentosessanta chilometri percorsi in più di sei ore e mezza, a una velocità di circa trentanove chilometri orari fanno grossomodo la bellezza di trentadue metri e settantatre centimetri scarsi. Tradotto, nel momento in cui Alessandro Ballan tagliava il traguardo, Damiano Cunego era una trentina di metri dietro; o, tradotto meglio, se Damiano Cunego fosse capitato una trentina di metri più avanti (e non sono affatto tanti, trenta metri) avrebbe salvato la stagione e oggi Alessandro Ballan non sapremmo neanche chi sia.

Invece, il ciclismo ha una sua grandezza tragica che raggiunge lo zenit nel giorno del Mondiale; quando, dopo una corsa perfetta, un corridore resta a dieci pedalate dal traguardo che gli cambierebbe la vita e non può muoversi perché la macchia azzurra che lo sorpassa e si allontana sempre più è un compagno di nazionale. Ironia della sorte, anche i pantaloncini sono uguali, con la scritta “Lampre” ben in vista; ma, se nella Lampre Cunego è il capitano e Ballan il gregario extralusso, in nazionale Ballan scatta e Cunego deve guardare, spezzare i cambi, coprirgli le spalle.

Io tifo Milan, e ha vinto, io tifo Alonso, e ha vinto, io mi disinteresso completamente dell’evenienza che Valentino Rossi vinca o si schianti; però avrei dato volentieri in cambio tutto il resto dell’intensa domenica perché Damiano Cunego, dopo aver fatto il diavolo a quattro per sei ore e tre quarti, si ritrovasse con tre secondi in meno o trenta metri in più. Fosse accaduto, con ogni probabilità avrei finito per volteggiare esultando giù dal balcone o per correre nudo attraverso le strade più trafficate del paese che si onora di ospitarmi ogni tanto – sarebbero state entrambe reazioni più che giustificabili considerato l’antefatto. Invece il Mondiale è inesorabile, e trenta metri ovvero tre secondi pesano come trecento macigni, e separano senza rimedio il vincitore da duecentocinque sconfitti. Cosa potevo fare allora, cosa poteva fare Damiano Cunego? Guardare l’iride che piomba su spalle non sue, inghiottire, tirare avanti, aspettare Mendrisio 2009. Un altro anno è meno lungo di un Mondiale.

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