venerdì 28 novembre 2008

Letterine letterarie (11)

Gurrado,
non credi che un Pavese di nascita o di elezione possa star male sentendosi dire che, praticamente, la sua città non esiste?
Mamma

Cara mamma,
comprendo senz'altro le reazioni degli indigeni soprattutto, i quali hanno l'ovvio istinto a difendere la propria città. Penso che in caso di sommosse - fermo restando il diritto di ognuno a esprimere le proprie idee, quindi tanto il loro quanto il mio - andrebbe spiegato che il mio articolo rientrava in un ciclo che Tempi, per mezzo di Camillo Langone, ha deciso di dedicare a come le piazze delle città italiane vengono interpretate dallo sguardo di alcuni scrittori. Il busillis sta appunto in questo: gli autori dei vari pezzi (Doninelli, Laura Bosio, Langone stesso, Enrico Brizzi, etc.) sono tutti scrittori e non giornalisti, ragion per cui danno un taglio letterario alla descrizione/interpretazione di ciò che vedono. Per questo motivo tutti i pezzi sono risultati parziali: non solo perché eravamo tutti costretti a contenerci entro i limiti delle 7.500 battute (che ti assicuro sono molto poche per descrivere una città intera) ma soprattutto perché l'obiettivo del ciclo di Tempi è quello di far vedere ai lettori le singole piazze con gli occhi di un singolo scrittore - quindi uno sguardo soggettivo e non oggettivo. D'altra parte penso che sia evidente il mio utilizzo continuo del pronome "io" nel corso del mio intervento. Altrimenti, per avere i vari articoli, invece che a degli scrittori Tempi avrebbe dovuto rivolgersi alle pro loco.
Nel mio caso la letterarietà del testo, benché implicita, credo che sia decisamente evidente. In primo luogo per la scelta del genere letterario in cui inscrivere le due paginette: la satira (all'inizio e alla fine, con il ritornello paradossale "Pavia non esiste") e l'invettiva (al centro, con la descrizione minuziosa di casi effettivamente accadutimi, come ad esempio la faccenda dell'ambulante che si siede al mio tavolo mentre sto offrendo un caffé a una signorina: cosa che mi è successa anche l'altro giorno, sempre in piazza della Vittoria, a un altro bar, con un altro ambulante e un'altra signorina). In secondo luogo la letterarietà del mio intervento era intuibile dalla presenza di una serie di citazioni implicite di cultura locale, che non dovrebbero sfuggire alle fasce più colte della cittadinanza (indigena o d'elezione), e delle quali ti elenco le più eclatanti:
- l'attacco "Pavia non esiste" si ricollega direttamente all'incipit del passo più celebre dell'Antapòdosis di Liutprando da Cremona, diacono di Pavia nel X secolo, il quale scrive una vibrante descrizione della distruzione di Pavia che si fonda sul ritornello "Brucia la disgraziata Pavia, un tempo così bella";
- la divisione di Pavia in "due compartimenti stagni" è un riferimento a un celebre brano di Cesare Angelini, ex rettore di una tristemente nota residenza universitaria nei pressi del Ticino, che fa riferimento alla divisione di Pavia in due parti "come nella Gallia di Cesare";
- la descrizione delle direttrici composte da cardo e decumano, che corrono verso i differenti punti cardinali, è un riferimento al Liber de laudibus civitatis Ticinensis di Opicino de Canistris, parroco a Pavia nel XIV secolo, in cui offre una descrizione di Pavia come specchio geografico dell'universo intero e delle differenti pulsioni dell'animo umano (nel caso del mio articolo, "passeggio e fuga");
- "a Pavia ogni battaglia è persa" è, come dovrebbero effettivamente sapere gli studenti di cui parlo nella circostanza specifica, un riferimento al fatto che le varie battaglie di Pavia sono state decisive per la (cattiva) sorte di grandi popoli nel corso della storia: sempre a Pavia infatti nel 271 l'Impero Romano dovette soccombere agli Alemanni, nel 773 i Longobardi furono sconfitti dai Franchi, nel 1525 i Francesi persero contro il Sacro Romano Impero la possibilità di impossessarsi di tutta la Lombardia (e, nella circostanza, venne addirittura imprigionato il Re di Francia Francesco I).
E così via: tutte queste informazioni peraltro sono reperibili nel volume Lombardia della collana Letteratura Regionale Italiana dell'editrice La Scuola, curata dal prof. Stella e da un ottimo pavese, Cesare Repossi. Penso si chiaro che sotto la patina graffiante e ironica ci fosse una non comune attenzione alla storia e alla cultura di una città nella quale sono capitato più di dieci anni fa, pur non avendoci vissuto continuativamente, e che quando si legge un testo non ci si debba limitare al senso letterale.

Eh no, Gurrado!
[omissis] Anna Karenina [omissis] Tolstoj [omissis] i romanzi russi [omissis]
.
Enzo, Erika, Graziano

Madò, che putiferio.
Uno per volta, direi a Enzo che lo svuotamento culturale, indubbio e indegno, di questi tempi colpisce altrove che nei romanzi russi. Penso che loro si siano un po' svuotati da soli, polarizzando uno scontro fra una minoranza di sostenitori estremi e un'altra minoranza di insofferenti urticati. Nel mezzo c'è la maggioranza svuotata culturalmente che dei romanzi russi non si cale e pertanto non è né favorevole né contraria, anzi si stupisce di come un argomento del genere possa anche spingere alla faida.
Alla signorina Erika direi che alla stessa maniera non è solo questione di gusti. Se i romanzi russi non mi piacciono non è solo perché non mi piacciono (sarebbe una misera tautologia) ma perché non riesco a specchiarmici; anzi, mi sembrano come i vecchi specchi trascurati dove uno può a stento vedere la sua immagine scurita ma qua e là la sua capacità di riconoscersi, o di vedere qualcosa tout court, viene sopraffatta dalle incrostazioni. Limitandoci ad Anna Karenina (che nel frattempo ho ovviamente gettato sotto il treno, finito e digerito), la parte del romanzo che mi interessava di meno è appunto quella che riguardava strettamente lei, Anna Karenina eponima. (Con la ragionevole eccezione delle venti pagine per descrivere la mietitura nelle campagne russe.) Ho avuto l'impressione di star leggendo qualcosa che non aveva a che fare con l'evoluzione sentimentale e intellettiva che una persona solitamente ha una volta passati i quattordici anni, e che nella circostanza il talento di Tolstoj fosse sprecato in faccenduole (meno trama! meno trama!).
A Graziano infine direi che ha un po' di torto su una cosa e ragione su un'altra. Il Dono di Nabokov l'ho letto e ne ho ricavato la lettura di aver sprecato tre giorni di vita (la vita è una sola, ricordiamocelo, e purtroppo è questa). Peraltro mi sorprende che Nabokov mi sia piaciuto nelle sue prove successive, composte in Inglese, mentre Il Dono era irrimediabilmente scritto in Russo (se non erro il titolo originale è Dar): chi lo sa, magari è la lingua che rende indigesta la scrittura, magari è il cirillico che ingolfa i motori, boh. Invece ha ragione assoluta quando dice che per me (ma temo anche per altri) a furia di praticarla la lettura sia diventata l'esercizio di un dovere un po' vuoto, un cartellino da timbrare, una catena corta.

Gurrado,
dici che hai fatto il biglietto per Modena ma causa neve non sai se riuscirai a utilizzarlo domani. Secondo me si scioglie, ma ricordati piuttosto di dirmi a che ora arrivi.
Mirko

Ora che ci penso, questa potrebbe essere un'idea per un nuovo e postmoderno mecenatismo: mi faccio ospitare a turno un paio di notti da tutti quelli che leggono il mio indegno blog, dove che vivano. Dite che riempio un anno o che dopo due settimane mi ritrovo sotto i ponti?

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