martedì 11 novembre 2008

L'iperscherzo

(Gurrado per Books Brothers)

Sta a ffà tterra pe ccesci: ecco indov’èllo.
(Giuseppe Gioachino Belli)

Potrebbe apparire trucido ma la prima fondamentale condizione che balza alla mente nel momento in cui si tratta di decidere se un testo sia un classico o meno risiede nel prerequisito che l’autore sia morto. Questo almeno ho pensato apprendendo, ormai più di un mese fa, del suicidio di David Foster Wallace. Parlo di là dalle ragioni personali che potrebbero averlo spinto a impiccarsi (a me interessano gli scrittori, non le persone): potrebbe darsi che la sua morte sia stata il sigillo definitivo per conferire con decorrenza immediata dignità di classico a Infinite Jest, che dal titolo stesso ha la valenza di scherzo senza fine. Io per primo, che istintivamente tendo a privilegiare i classici, ero da un lato incuriosito dalla mole e dall’ambizione del romanzo, dall’altro trovavo sempre degli aspetti contingenti che mi trattenevano dal leggerlo (non di rado la stessa mole, la stessa ambizione). Morto l’autore, tutti gli impedimenti contingenti sono venuti meno a un tratto e leggere Infinite Jest mi è parso un dovere immediato e indiscutibile così come leggere Joyce, Musil, Proust, Beckett, Mann. Non sono nomi che uso a caso.

Fino a immediatamente prima della morte di Wallace la ragion d’essere di Infinite Jest era da ricercarsi altrove. Usando l’accetta, la letteratura italiana si distingue da quella americana per due ragioni principali. La prima è che in America quasi tutti gli scrittori sentono impellente il bisogno di prodursi in un grande romanzo americano, talmente grande e talmente americano da garantirsi l’articolo determinativo e le maiuscole: il Grande Romanzo Americano. Noi siamo d’altra pasta e (per quanto recentemente abbiamo avuto Genna e Colombati) lasciamo ben sopita l’ambizione a comporre il Grande Romanzo Italiano, definitivo onnicomprensivo e indissolubilmente radicato sul territorio. In America, per limitarci agli estremi, basta pensare ai grandi affreschi postmoderni di Thomas Pynchon o anche soltanto a Via col Vento (senza contare che nel 1973 Philip Roth intitolò proprio The Great American Novel uno dei suoi romanzi meno celebri): è evidente una diffusa ambizione statunitense a narrare tutto per mezzo di un panopticon narrativo, a partire dal foglio bianco e a procedere non per levare (come voleva d’Annunzio) ma per mezzo di aggiunte e sostrati successivi. Le milletrecento pagine di Infinite Jest, con annesse trecentottantotto note esplicative di vario genere e misura, sono la ponderosa conferma del perdurare di quest’ambizione.

La seconda distinzione si infila più nelle pieghe del testo e si può riscontrare nel celebre ammonimento intarsiato sul portale di ogni scuola di scrittura creativa: don’t tell the story, show it - non raccontare la storia, mostrala. La classica narrativa italiana (ed europea) ha sempre teso a una narrazione mediata, in cui la voce dell’autore sia preponderante a fronte dell’agire dei personaggi. La narrativa americana, altrettanto classica, ha progressivamente privilegiato l’immediatezza dell’agire dei personaggi e la pervicace cancellazione delle impronte digitali dell’autore. Ovvio che le eccezioni non mancano (altrimenti la letteratura sarebbe roba noiosissima, letto un libro letti tutti); però la caratteristica di Infinite Jest che salta più a un occhio tecnico è che Wallace scelga di raccontare la sua sterminata, pirotecnica, tracotante storia piuttosto che di mostrarla. E, poiché si tratta di una storia letteralmente bigger than life - impossibile a essere contenuta entro i canonici confini di una quarta di copertina, di una trama, di una vita intera - è estremamente plausibile che la stessa vita dell’autore vada ritenuta compresa in, identificata con, fagocitata da Infinite Jest.

Alla scelta di raccontare con tutti i crismi della letteratura classica consegue che lo stile di Wallace è tutt’altro che naif, nonostante che all’atto della pubblicazione avesse poco più di trent’anni. Ci sono dentro così tanti trucchetti che non li si è ancora scoperti tutti, credo, e mi sembrano sovrabbondanti le citazioni implicite che si rifanno quasi ossessivamente al canone letterario europeo, quindi alle successive incarnazioni dell’idea stessa di classico. Tutto il romanzo anzi è incentrato sull’affannosa ricerca di un film, intitolato appunto Infinite Jest, che nessuno ha visto ma che è eternato nella condizione di classico esattamente dal fatto che il suo autore James O. Incandenza sia morto, suicidandosi con un microonde (non entro in dettagli ulteriori, so che ci sono delle signorine che leggono).

Il primo riferimento che mi viene in mente è chiaramente Joyce, il padre di tutti i romanzi-mondo. L’identità fra i due Infinite Jest, film e romanzo, è pressoché totale e ricorda l’altrettanto affannosa ricerca di una fantomatica lettera in Finnegans Wake: questa lettera viene trovata in condizioni di illeggibilità, ciò nondimeno viene sottoposta a un accurato esame critico, marxista, strutturalista, e così via. Solamente grazie a un dettaglio, la prima parola della lettera, è possibile intuire che essa coincida di fatto col romanzo stesso, che inizia con la stessa parola, anzi con un omofono. Idem, se si volesse avanzare la ragionevole ipotesi che il misterioso film vada identificato col romanzo che ne parla, l’unico supporto effettivo sarebbe la coincidenza fra due parole, considerato che il titolo è lo stesso.

Wallace deve a Joyce vari altri elementi caratteristici del suo romanzo. La sovrabbondanza di note arriva dritta dritta dagli scòli dei giovani protagonisti di Finnegans Wake al testo che li contiene. Idem, il sensazionale e dettagliatissimo resoconto del gioco onnicomprensivo dei giovani protagonisti di Infinite Jest, che riproducono su alcuni campi da tennis i destini del mondo intero, deriva dalle messinscene casalinghe degli stessi giovani protagonisti di Finnegans Wake, che impersonano di volta in volta Papi e Imperatori, oppure angeli e diavoli, il tempo e lo spazio, e così via. Quando Wallace, dopo circa cinquecento pagine, decide di raccontare i futuribili anni di storia del Nordamerica che hanno condotto alla situazione politica da cui muove l’inizio di Infinite Jest, lo fa trascrivendo il copione di un cortometraggio che parodizza questa stessa storia di fronte a un pubblico noto; alla stessa maniera Joyce aveva scelto di mettere in forma di copione teatrale il capitolo fondamentale dell’Ulisse, in cui si verifica il dénouement della trama esile e complessa.

Da L’Uomo Senza Qualità di Musil, Wallace ha preso il continuo alternarsi ariostesco fra una storia e l’altra, l’inseguirsi fra i capitoli del livello individuale della trama e della sua portata politica o talvolta sovrumana, il ricercato gioco di specchi fra la seria meditazione sui destini umani e il suo continuo rovesciarsi in sberleffo poche pagine dopo. L’infinità alla quale fa riferimento il titolo di Wallace può essere intesa come incompiutezza, la stessa che caratterizza L’Uomo Senza Qualità e l’opera di James O. Incandenza, che resta come scoperchiata per l’impossibilità di sapere alcunché riguardo a quello che tutti ritengono, a torto o a ragione, il suo capolavoro insuperabile.

Come Proust, invece, Wallace ha voluto mettere su carta un romanzo che potesse essere effettivamente infinito, in cui la parola fine venisse apposta più per convenzione letteraria che per effettiva esigenza del testo o per teorica convinzione narrativa. Entrambi, Proust e Wallace, arrivano a quest’effetto passando per una destrutturazione narrativa del tempo: in Proust esso si fa liquido e perde la propria consistenza nei trapassi sentimentali da un quadro all’altro, sotto il fortunato nome di “intermittenze del cuore”; in Wallace il tempo perde la propria progressività vedendo la sostituzione del numero quantificatore (1996, 1997, 1998, etc.) con l’appellativo identificativo (Anno del Whopper, Anno di Glad, Anno del Pannolone per Adulti Depend): il quale ovviamente non identifica un bel nulla, visto che fa perdere il criterio di misurabilità e visto che la reale cronologia degli anni così rinominati viene fornita da Wallace solo dopo trecento pagine, quando il lettore è ormai aduso alla nuova terminologia temporale. E se l’ultima parola di Alla Ricerca del Tempo Perduto è, guardacaso, “tempo”, l’ultima riga di Infinite Jest contiene la vaga notazione di una marea molto lontana, che consiste nella presa di coscienza (estremamente meravigliata e per niente lucida) dell’apertura di uno spazio incomprensibile.

Beckett fu il primo autore a presentare nei suoi romanzi personaggi oggettivamente repellenti, deformi all’inverosimile e privi delle principali funzioni vitali, senza che ciò impedisse loro di continuare a vivere soffrendo; Wallace carica di queste deformità non solo buona parte dei personaggi nella centuria di Infinite Jest ma addirittura Mario, il terzogenito di James O. Incandenza. In Beckett, il protagonista eponimo de L’Innominabile è una specie di sfera che piange e non ha nemmeno le palpebre per asciugarsi le lacrime, esattamente come Mario Incandenza, il quale ha una testa gigantesca montata su un corpo informe, con la bocca sempre aperta in un sorriso insensato. Il compiacimento nella descrizione di dettagli urtanti, preponderante in Beckett come in Wallace, è spia di un iperrealismo narrativo che porta allo stremo l’utilizzo morboso e faceto della terminologia scientifica: Beckett, ad esempio in Murphy, descrive gli esseri umani per corpi fisici, sottoposti anzitutto alle leggi della meccanica e della gravitazione universale; Wallace dà pieno sfogo alle proprie conoscenze nel campo della farmacia, ma anche della trigonometria, dilettandosi nel tradurre in formule chimiche o in algoritmi le sbavature narrative della sua pletora di personaggi. Quest’attenzione tecnicissima viene tradotta su carta mediante i lunghissimi capoversi, foss’anche per pagine e pagine, di cui fanno uso sia Wallace sia Beckett (ad esempio in Malone Muore, ma anche in testi più sintetici e spiazzanti tipo Bing), allo scopo di trascinare il lettore secondo il ritmo narrativo che scelgono di imporgli fino a ipnotizzarlo del tutto.

La prosa ipnotica non è casuale, in un romanzo sulla dipendenza. Infinite Jest, il film, è una pellicola che a quanto pare impedisce di fare altro che continuare a guardare a oltranza sempre le stesse immagini. Infinite Jest, il romanzo, è un libro esigente e capriccioso che non ti lascia mai andare via, e pretende un ulteriore sforzo mnemonico e intellettivo anche nei momenti della giornata in cui non si sta più leggendo il libro ma ci si continua a interrogare al riguardo - in questo Wallace ricalca ancora Joyce, quando per gli arzigogoli di Finnegans Wake auspicava “un lettore ideale che soffra di un’insonnia ideale”. I personaggi di Infinite Jest sono tutti dipendenti da qualcosa: molti dalla droga, alcuni dall’ideologia politica, altri dai farmaci o dal fumo, uno addirittura dalla sitcom M.A.S.H. (con Alan Alda, se ricordate), che viene scomposta nei dettagli e rimontata fantasiosamente come se si trattasse di un’opera aperta della più estrema avanguardia postmoderna, o come se si trattasse del romanzo stesso che abbiamo per le mani.

Per rendere narrativamente l’effetto della dipendenza, Wallace ricorre allo stesso espediente di Thomas Mann ne La Montagna Incantata: rinchiudere i personaggi in un luogo fisico dal quale non possono fuggire. In Mann si trattava del sanatorio di Davos con le sue sette tavole bianche (e le tovaglie un po’ ingiallite), in cui la minima unità di tempo è la settimana, dove ogni mese è uguale al precedente, dal quale tutti vogliono scappare e nessuno se ne va, nel quale tutti sono di passaggio e si cristallizzano in eterno. In Wallace sono la Enfield Tennis Academy, una scuola tennistica per ragazzini di talento, e la Ennet House, una casa di recupero per tutte le dipendenze. Ma penso che si possa risalire a Mann soprattutto per mezzo di un indizio sotterraneo, quasi nascosto, che è la chiave di volta del senso stesso di Infinite Jest e forse della vita intera di Wallace. In Altezza Reale, Mann presenta la figura di Axel Martini, un poeta divorato dalla propria fama che, per timore di perderla, è costretto a sottoporsi a un regime rigidissimo per garantirsi la continua produzione di versi di alto livello che gli garantiranno a loro volta una gloria sempre maggiore che lui non potrà mai godersi, nemmeno concedendosi un sigaro o un bicchiere di vino. Allo stesso modo la principale e sottaciuta dipendenza dei membri della Enfield Tennis Academy è la graduatoria mediante la quale sono classificati nel ranking dei tennisti juniores secondo punteggi stabiliti su criteri oggettivi e ineluttabili, e il conseguente tentativo di scalare sempre un’ulteriore posizione fino al punto in cui non ci sono più posizioni da scalare e ci si dispera. Il giovane Clipperton, ad esempio, minaccia di uccidersi se non diventa n.1 nella graduatoria; finché, venendogli date vinte tutte le partite, diventa davvero il n.1 e non può fare altro che suicidarsi davvero.

Questo è, pari pari, il paradosso di Axel Martini, il martirio dell’autore nella sua stessa gloria. Wallace scrive dell’ambizione del tennista, e sembra parlare di sé definendola “devota autotrascendenza fanatica e tener duro e duro lavoro quotidiano per raggiungere una meta distante con la quale, se ci arriverai, un giorno potrai forse convivere”. O forse no, sesto fra cotanto senno.

[Nota bene: è altamente plausibile che, stante la sua formazione americana, David Foster Wallace non abbia mai letto nessuno dei classici che ho citato, e che si sia limitato a farvi riferimento per prendersi gioco dei lettori troppo eruditi.]

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