giovedì 20 novembre 2008

Pavia decadence

(Gurrado per Tempi, anno 14, n.46, 13 novembre 2008)


Pavia non esiste, o meglio è un’illusione ottica, lo specchio di un’immagine riflessa. Controprova sociologica: basta fermare per strada un indigeno e uno studente a caso chiedendo a entrambi di definire la città in cui vivono; ne sortiranno due risposte del tutto diverse e, se non si avesse la certezza che entrambi hanno casa nella stessa Pavia – magari nella stessa strada, fors’anche nello stesso condominio – si finirebbe per credere che vivano non solo in due città ma in due mondi del tutto diversi. Il fatto è che mentre l’indigeno è convinto di abitare in una fin troppo tranquilla cittadina di provincia, onusta di storia medievale e ingloriosamente rappresentata da pedatori di serie C2, lo studente sostiene di abitare nella miglior città universitaria d’Italia, giovane, vivace e stimolante dal lunedì al venerdì (il weekend non gli appartiene, al weekend si torna a casa).

Hanno ragione entrambi. Città e università a Pavia sono due compartimenti stagni, due estremi che s’incontrano molto di rado e, quando capita, tendono a ignorarsi o a considerarsi con malcelato disprezzo. Controprova topografica: la sede centrale dell’Università (1361) si trova quasi uasiquasquasiin cima a corso Strada Nuova, il cardo di Pavia che con longobarda coerenza corre in discesa verso sud, giù fino a inabissarsi nel Ticino. Tuttavia il grosso del passeggio su Strada Nuova è monopolio della società civile, ovvero degli indigeni, e i weekend sono nobilitati dai provinciali con le loro vasche in salita e in discesa a orari tanto improponibili quanto gli abiti nei quali si pavoneggiano – non è raro rinvenire ruspanti signorine che alle tre meno un quarto della domenica pomeriggio attraversano due file di vetrine tenendo per mano energumeni in canottiera, indipendentemente dalla stagione. Quanto agli studenti, è più facile incontrarli sul decumano, che corrisponde a Corso Mazzini prima e Cavour poi, e che coincide grossomodo con la strada più comoda e dritta per raggiungere la stazione, fuggendo da Pavia a massima velocità ogni venerdì pomeriggio, o subito dopo un esame, o negli interstizi fra i trimestri accademici. Cardo e decumano, passeggio e fuga, città e Università finiscono per intersecarsi in uno e un solo punto: piazza della Vittoria.

In piazza Vittoria studenti e indigeni si concentrano a ogni ora per mostrare di fronte al nemico il peggio di sé. Gli indigeni – istigati forse dalla presenza, all’imbocco della piazza, della celebre pellicceria Annabella, la Las Vegas delle nebbie, il cantuccio dove le luminarie natalizie vengono accese a ottobre e spente verso marzo – portano con sé tutto lo sfarzo di cui sono capaci, piantandosi ai tavolini dei cinque bar dalla prima colazione all’ultimo aperitivo, sbraitando a scopo intimidatorio spropositi del tipo: “La mia compagna è appassionata di rimedi naturali”, e dando l’impressione che a Pavia non lavori nessuno, in orario d’ufficio. Attempate signore, che con ogni verosimiglianza hanno fatto in tempo a esprimere scetticismo al cospetto dell’invenzione della pila, traballano sotto gigantesche pellicce, sempre indipendentemente dalla stagione, e ognuna si lamenta della dura vita che il Signur le ha riservato.

Cameriere cinesi servono cornetti di plastica. Cameriere rumene servono tortellini precotti. Cameriere longobarde accompagnano l’Aperol con bordi bruciacchiati di pizza e, dietro esplicita richiesta (mia) di far bella figura con dei tramezzini o addirittura qualche fetta di crudo e scaglie di grana, reagiscono sbuffando e portando un ulteriore vassoietto traboccante di bordi ancora più bruciacchiati. Uno degli infiniti ambulanti maghrebini o centrafricani, che pian pianino hanno preso in ostaggio la santa pace di ognuno, tenta di vendermi un elefantino in falso avorio, e per risultare più convincente si siede al mio stesso tavolo e indaga se la signorina che mi accompagna sia o meno la mia legittima fidanzata. Se ne andrà al prezzo di due euro, col mio mistero chiuso in sé. Un ragazzetto zingaro chiede altri soldi, senza elefanti in cambio, e coglie occasione per gironzolare attorno a borse, cellulari e portafogli. Se oso protestare, si lamenta e invoca la carta dei diritti dell’uomo.

Caratteristica non trascurabile, nessuna chiesa si affaccia su piazza Vittoria. È presunzione? C’è se non altro una Madonnina candida, lungamente sparita per restauro e poi riapparsa nel sabato più nebbioso degli ultimi sette anni, che da una teca sulla facciata del Broletto un po’ guarda benevolmente i traffici sottostanti, un po’ finge di non vedere. Dietro il Broletto, che da essere palazzo del Comune è retrocesso a scenografia di un pub all’irlandese, s’intravede la cupola del Duomo, la terza più grande d’Italia (se ne vantano gli indigeni, ignari che le dimensioni non contano): una faccenda gigantesca e sproporzionata sulla quale è ormai un decennio che s’inerpicano impalcature permanenti. È trascuratezza? Dal lato opposto, dietro al Banco Popolare di Novara, spunta la torretta fascista del Palazzo della Provincia. Sul versante orientale della piazza c’erano le assicurazioni Generali; ora non è rimasta che l’impronta cubitale delle lettere dell’insegna, campeggianti sopra una gelateria. È nostalgia? Città di ombre e di resti, da qualche mese Pavia ama vantarsi, a mezzo cartellone installato dal Comune nel bel mezzo della piazza: “Una città, le sue radici, il suo futuro”. La città è Pavia. Le radici, spiega il cartellone, sono gli anfratti del mercato ipogeo nascosto sotto i sampietrini della piazza. Il futuro non è specificato.

Il mercato ipogeo spalanca le sue fauci in quattro diversi punti della piazza. Che piova a dirotto o splenda il sole malaticcio di queste parti, gli indigeni scendono i gradini che portano al piano inferiore allo scopo di passeggiare al buio fra tristi mercerie o passare dall’emporio e pagare uno sproposito generi misti per i quali litigheranno con la cassiera su mezzo centesimo di resto. Poi arriva l’ora di cena: chiudono gli uffici, chiudono i negozi, il mercatino sotterraneo vomita in superficie gli ultimi avventori e, intorno alle ore venti, passa l’ultimo bus. D’improvviso tutti svaniscono, compresi zingari e ambulanti; le impalcature del Duomo si trasformano in lugubri scalini verso il cielo nero e piazza Vittoria resta in mano agli studenti - i quali si riuniscono in plotoncini, fanno presenza, tentano timidamente di smuovere la situazione ma dopo un’oretta, rendendosi conto che a Pavia ogni battaglia è persa, lasciano già campo libero per le prime vecchiette impellicciate che al mattino inaugureranno la colazione. La piazza resta vuota, a eccezione della Madonnina candida che sembra sospesa nel nulla, sorretta dal buio.

Così è piazza Vittoria. Ci si trascorre tutti insieme una mezz’ora o una mezza giornata sapendo benissimo, gli indigeni, che senza Università né studenti sarebbero sì costretti ad abbassare gli affitti ma vivrebbero più tranquilli, e non dovrebbero più preoccuparsi di orde pronte a seminare i crocicchi di bottiglie rotte ovvero a mollare bisognini attraverso le sbarre dei cancelli altrui; e sapendo altrettanto bene, gli studenti, che se le mille sedi dell’Università e soprattutto il sistema virtuoso e benedetto dei vari Collegi storici (come il Ghislieri, 1567) e recenti (il Nuovo, appunto), pubblici (il Castiglioni) e privati (il Santa Caterina) fossero miracolosamente sollevati da una turba angelica e trasportati altrove, a Monza, a Campobasso, a Boston o nel deserto del Sahara, nulla cambierebbe nel corso delle loro vite, e Pavia verrebbe legittimamente riconsegnata alla sua placida, remota, inconsapevole inesistenza.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.