giovedì 11 dicembre 2008

Effetto speciale

(Gurrado per Quasi Rete)

I giornalisti, alcuni dei quali estremamente noiosi, hanno impostato quasi tutto il loro lavorio su Mourinho sul paragone col suo imbarazzante predecessore, andando così contro le più elementari leggi della statistica (confrontano il primo anno di Mourinho con l’ultimo di Mancini), del professionismo (traggono conclusioni a lavori in corso, e non a prodotto ultimato) e del buon senso (giudicano a vanvera di domenica in domenica, a seconda dell’ultimo risultato). Ne sortisce che Mourinho perde il derby col Milan, o scivola al secondo o addirittura terzo posto in classifica, ragion per cui l’Inter sedicente tricampione è affidata a uno sbruffone senza adeguato pedigree. Oppure che l’Inter vinca l’anticipo con la Juventus, aumenti da uno a tre punti il vantaggio sulla seconda, ragion per cui Mourinho è in fuga, è imbattibile, ha trovato la quadratura del cerchio e come fa funzionare l’Inter lui non ci riuscivano nemmeno Herrera e Trapattoni in combutta.

Il campionato deve ancora vivere inverno e primavera, notoriamente stagioni lunghe e massacranti, in cui tre punti di vantaggio possono dilatarsi o incenerirsi come niente. I giornalisti (specie quelli più noiosi) parlano parlano e non considerano che il principale effetto dello sbarco di Mourinho in Italia è nel fatto che finalmente anch’io posso guardare le interviste nel dopopartita senza tema di addormentarmi sul divano alle dieci e mezzo di sera o, ciò che è più grave, alle cinque del pomeriggio. Con Mancini, oggettivamente, le interviste nel dopopartita erano un’inutile appendice. Con Mourinho, bene o male, la partita è il pretesto per l’intervista.

Da quando ho iniziato a seguire il calcio, gli allenatori dicono bene o male sempre le stesse cose. Non parlo dei singoli. L’arbitro ci ha danneggiati involontariamente. La società è straordinaria. Il mercato va concordato col presidente. Ai tempi del Milan, da perfetto uomo-azienda, Fabio Capello era l’apice della reiterazione. Che si perdesse in casa col Napoli o si vincesse 3-7 a Firenze, davanti alle telecamere la dichiarazione era invariabilmente: “Abbiamo giocato una buona partita, l’avversario s’è dimostrato molto quadrato”. Rai e Fininvest, per risparmiare, avrebbero potuto trasmettere un nastro registrato semel in aeternum; invece, avide di novità, attendevano che Capello si palesasse davanti ai microfoni e all’apertura dei mascelloni speravano (Van Basten aveva rifilato quattro goal all’Ifk Göteborg, oppure Sebastiano Rossi aveva stabilito il nuovo record d’imbattibilità) che per l’occasione proferisse qualcosa di diverso. Invece: “Abbiamo giocato una buona partita, l’avversario s’è dimostrato molto quadrato”.

Mourinho sotto quest’aspetto è proprio l’anti-Capello. Ne avevamo avuto sentore quando s’era presentato in Italiano – miracolo indubbio, nella Patria che ha foraggiato per un decennio Schumacher senza chiedergli una parolina in cambio – specificando di fronte alla stampa: “Ma io non sono un pirla” (e dando così implicita ragione a Eugenio Montale: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). Né io né, presumo, nessuno sano di mente sarebbe in grado di ricordare una qualsiasi frase detta da un qualsiasi altro allenatore prima dell’inizio del campionato (dando ragione a Montale pure noi: non chiederci la parola). In Inghilterra, quattro anni prima, a tempo di record Mourinho s’era dato un soprannome da solo proclamando: “Non sono uno fatto in serie: sono uno speciale (I think I’m a special one)”. Quindi è recidivo, quindi è intenzionale, quindi è un professionista che cura le proprie dichiarazioni e i suoi effetti con la stessa professionalità che dedica al campo da calcio.

L’editore Cairo ha avuto la giusta idea di comprare i diritti di un volume inglese del 2005 (John Amhurst, The Special One) e di tradurlo in Italiano aggiornandolo con un’ampia sezione su Mourinho in Italia, curata da Giancarlo Padovan (nonché con una breve biografia privata e una brillante prefazione di Gino e Michele). Mourinho: pensieri e parole di un allenatore molto speciale si distingue dagli altri libri sullo stesso argomento perché è un’antologia delle dichiarazioni di Mourinho dal 2004 a oggi. A fronte della volubilità delle interviste agli allenatori medi, che il più delle volte rispondono a domande contingenti con frasette di circostanza, la raccolta in volume permette di notare come nel passare degli anni tutte le sentenze dello Specialone siano rimaste improntate a una notevole costanza per così dire filosofica e a un’ammirevole coerenza nel giudicare sé stesso e gli altri con lo stesso metro – dote rara ovunque, figuriamoci nel calcio.

A leggerlo in volume, dunque, ci si accorge che Mourinho funziona così: di fronte a una domanda contingente causata da un fatto di cronaca, risponde con un principio generale o un criterio valido universalmente. Le sue interviste sono affascinanti perché nulla è più lontano dall’occasionalità o dall’opportunismo. Volendo cogliere fior da fiore per estrapolare la sua filosofia fuori dal campo, potremmo fondarci su quattro assunti.

Il primo è l’antiegualitarismo, cosa che non sorprende affatto in un tizio dalla conclamata eccezionalità. In tal caso però non si tratta di presunzione ma di serena presa di coscienza davanti alle diversità dei singoli: “Sono totalmente contrario al vecchio adagio che dice: tutti dovrebbero essere trattati alla stessa maniera. Non è così. Siamo tutti diversi e tutti meritiamo un trattamento specifico”. Questo spiega come e perché Mourinho riesca a farsi amare da pressoché tutti i suoi giocatori, anche quelli che punisce o mette dietro la lavagna. Li fa sentire tutti speciali quasi quanto lui.

Il secondo è la cultura del lavoro, che idem non sorprende in uno che arriva ad Appiano Gentile prima che il custode apra il cancello, e che si fa pagare tantissimo per lavorare ancora di più. “La migliore condizione al mondo”, spiega Mourinho urbi et orbi, “è quella di allenatore licenziato. Ti alzi alle dieci e mezza, fai colazione, vai a farti una corsettina seguita da una sauna e da una tranquilla panoramica sui siti sportivi in internet. Poi il pranzo, un pisolino e un incontro con il tuo commercialista o con il tuo operatore di Borsa. Poi torni a casa e fai una buona cena con la tua famiglia. Tutta questa attività ti lascia ancora il tempo di criticare gente che non conosci”. Questo spiega, con qualche anno d’anticipo, i frequenti attriti fra Mourinho in piedi nel monitor e l’esperto di turno seduto negli studi televisivi. Uno dei due sta lavorando.

Il terzo è l’attenzione alla sistematicità teorica piuttosto che all’improvvisazione pratica, per fortuna o per ingegno. Al riguardo Mourinho è fulmineo: “Il mio odontoiatra è fantastico, eppure non ha mai avuto mal di denti”.

Il quarto e più importante è la concentrazione sul risultato quale unico criterio uniforme di giudizio dell’operato di una persona (si tratti di sé stesso o, poniamo, di Ranieri); questo fin quasi ai confini della nevrosi e alla scissione dell’ego. Nel corso della polemica estiva col finto-settantenne allenatore della Juventus, i giornali hanno dato risalto all’attacco verso il nemico esterno (Ranieri “non ha mai vinto trofei importanti; forse avrebbe bisogno di cambiare la sua mentalità, ma probabilmente è troppo vecchio per farlo”); rileggere invece la stessa dichiarazione in volume permette di concentrarsi sull’attacco al più subdolo nemico interno: “Io sono una persona molto esigente con sé stessa; ho bisogno di vincere per essere felice, per avere la sicurezza che tutte le cose stiano andando bene”. Questo spiega perché di anno in anno Mourinho abbia sempre vinto qualcosa: per riuscire a non parlar male di sé.

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