mercoledì 3 dicembre 2008

Quattro storie di devastazione di sé

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Bisognerebbe sforzarsi di esprimere un giudizio univoco sull’ultimo romanzo di Giuseppe Genna per quanto l’autore stesso faccia di tutto per far coesistere all’interno dello stesso volume due libri differenti, collocati su due piani altrettanto diversi: dividendo nettamente il romanzo in due parti diseguali quantitativamente e narratologicamente (“la narrazione” prima, “il racconto” poi) e giustapponendo in una tormentata convivenza il lamento per l’Italia che muore e quello per la degenerazione del sé (tanto che, spiega nella nota conclusiva, il romanzo avrebbe altrettanto bene potuto intitolarsi Giuseppe Genna De Profundis).

Genna è uno scrittore notoriamente calibrato, quindi la geometria del suo romanzo va studiata con attenzione. All’interno delle due parti, la divisione procede – ne “la narrazione” – in sette capitoli circolari, che seguono una scansione logica (o quanto meno una sfilza di associazioni d’idee) anziché cronologica, muovendo tutti da incipit similari dedicati sempre alla stessa estate del 2007, gratificata ogni volta di un paio di aggettivi poco lusinghieri (“improduttiva e faticosa”, “estenuata e neurotica”, etc.). L’altra metà invece procede – ne “il racconto” – con la scansione temporale in quattro capitoli in ordine cronologico, che partono dal tradizionale “inizio del racconto” e finiscono con l’altrettanto tradizionale “epilogo”.

Questi due procedimenti narrativi sono la traduzione su carta del duplice procedimento di scandaglio che Genna intende proporre nel suo nuovo romanzo (breve peraltro: meno di 400 pagine a fronte delle oltre 600 di Hitler e delle oltre 700 di Dies Irae). Da un lato assistiamo a un avanzamento centrifugo, che partendo dalla pretestuosa e imbarazzante estate del 2007 vissuta dal singolo protagonista/narratore/autore Giuseppe Genna intende via via coinvolgere i più vari strati della società italiana (e milanese in particolare), corresponsabili della degenerazione dell’individuo in questione. Dall’altro lato c’è un avanzamento centripeto, che fa confluire i più deludenti effetti della degenerazione sociale italiana (perlopiù milanese) nella vita individuale del singolo protagonista/narratore/autore Giuseppe Genna nel corso della sua solitaria e affollata estate del 2007 in un villaggio vacanze di Cefalù. Lo conferma Genna medesimo sentenziando: “L’intera superficie del Globo è esplorata. Poco di me è esplorato”.

Quando il libro inizia, con Genna che si descrive di spalle al “mare incontenibile del Capo, nella punta più tempestosa della Sicilia”, la faccenda promette bene perché consente di ricordare due precedenti letterari di gran livello. Sembra anzitutto che Genna sia riuscito a compiere il trasbordo di Scilla e Cariddi sul quale Stefano D’Arrigo trentatre anni fa aveva incentrato l’impatto di ’Ndrja Cambrìa su Horcynus Orca, anch’egli alla scoperta di un’Italia nuova e apocalittica. Altrettanto, procedendo un po’ all’indietro, Genna sembra aver presente l’impotente contemplazione dello Stretto da parte del protagonista/narratore/autore de Il Male Oscuro, e come Giuseppe Berto in questo caso Genna muove la sua narrazione a partire dalla morte del padre. In Berto il padre moriva di cancro, a seguito di una lenta agonia che lo sfigurava. In Genna il padre muore di infarto fulminante, che lo congela rapidissimo in una mossa grottesca: il vecchio comunista crepa col pugno serrato in alto nel tentativo di aggrapparsi al letto.

Man mano che le pagine passano, viene fuori che D’Arrigo e Berto sono falsi riferimenti. Un altro autore che muove volentieri dalla morte del padre è Michel Houellebecq, che Genna cita spesso e dichiara di leggere soprattutto nella prima parte di Italia De Profundis, quando invece il suo influsso è ravvisabile soprattutto nella seconda metà, dove la descrizione del villaggio turistico di Cefalù deve qualcosa all’approccio narrativo di Houellebecq in Lanzarote. Su David Foster Wallace, invece, Genna discetta sovrabbondantemente nella seconda parte del romanzo (con annessa palinodia a pie’ di pagina dovuta alla notizia del suicidio di DFW, un annetto dopo la composizione del De Profundis: Genna conclude che se DFW era “uno stronzo implicito, (…) Giuseppe Genna è uno stronzo esplicito”), mentre la sua influenza è più visibile fin dal titolo del lungo e fondamentale capitolo portante della prima parte: “Quattro storie di merda che non ricordo più”.

La coprolalia di Genna, lungi dall’essere molesta, trova la sua giustificazione appunto nelle quattro storie in questione, che il lettore fatica a dimenticare. Si tratta di quattro frammenti indipendenti sulla devastazione di sé stesso e del circostante, riguardanti la droga (con le prime tardive iniezioni di eroina), il sesso (con una barocca esperienza omosessuale e ipersessuata al cospetto di tre drag queen), la morte (con Genna che provvede all’eliminazione di un malato terminale) e la scissione dell’io. Proprio in quest’ultima circostanza, ricevendo una lettera scritta da sé stesso, Genna si autoaccusa di essere “letteralmente una merda: cioè il deposito di rifiuti inerti di un enorme intestino sociale”.

Va dedotto che l’intero romanzo di Genna intende mostrare peristalsi e prodotti dell’intestino sociale in essere, ipostatizzandoli non tanto nel compiaciuto autocompatimento quanto nella dimostrazione pratica della vita quotidiana dell’italiano medio in libertà. La parte più importante del patrio De Profundis va di conseguenza ricercata nella seconda metà del libro, e non nel quarto capitolo della prima parte che porta pari pari lo stesso titolo del romanzo. Qui, strafacendo, Genna accumula diciannove pagine che egli stesso denunzia come noiosissime e invece sono solamente insensate, portando agli estremi la sua consueta tecnica narrativa di accostare a sorpresa o a casaccio parole altisonanti per dare al lettore l’impressione di aver capito qualcosa (non per niente Genna, purtroppo, ha studiato filosofia): citando qua e là, Genna si diffonde sul “grande viaggio”, su “pozzi segreti e dolci declivi solcati da colate di metallo fuso e fontane di pece e nitrato”, sull’“inversione dei climi e delle scrivanie” e su lui solo sa che altro.

Invece, appunto, il baricentro del romanzo è nella seconda parte narratologicamente tradizionale e impeccabile, e in questa stessa seconda parte giace segreto il fallimento del progetto. “Il racconto” di Italia De Profundis è la storia – finalmente – dell’estate “cristica e anoressica” del 2007, alla quale Genna ha fatto fugace riferimento nelle precedenti 230 pagine. Ridotto a scrittore di cose e non più di parole, Genna tracima nel territorio che è già stato trattato a oltranza e meglio, per esempio da Francesco Piccolo sia in Allegro Occidentale sia ne L’Italia Spensierata. Quando non può più nascondersi dietro l’incomprensibilità, Genna ricorre alla satira ed è satira ritrita, che prende di mira e sviluppa espressionisticamente i temi sociali già adombrati in nuce nella prima parte del libro, dove fra le righe dell’autodissoluzione individuale e collettiva era possibile leggere il solito sermoncino su Welby, la stilettata alla sanità lombarda tutta in mano a Comunione e Liberazione, la consueta reprimenda sui reality show e sugli adolescenti che abusano del cellulare.

Prima ancora di essere d’accordo o meno sull’eutanasia – o più prosaicamente sull’Isola dei Famosi e sull’eccesso di essemmesse – il problema di Italia De Profundis è proprio nel non larvato impegno sociale che emerge dalle pagine più lamentose di Genna (il quale proclama di volersi esprimere per lamentazioni come un novello Giobbe, dimenticando che le Lamentazioni sono di Geremia). Qui la narrazione tradizionale di Genna mostra la corda e lascia sospettare che tutto il resto, ossia la corposa narrazione sperimentale della prima parte, possa venire ritenuto un bluff. Si potrebbe fare l’esempio del disprezzo ipocrita per le donnine che, nel villaggio vacanze di Cefalù, si immergono nella lettura di Gomorra senza essere degne degli sforzi letterari e umani di Saviano – così almeno lascia trapelare Genna, senza venire neppure sfiorato dal sospetto che la principale ragione del successo su vasta scala di Saviano possa risiedere appunto nei loro polpastrelli unti di crema solare.

Invece penso che sia più indicativo un piccolo risibile esempio che compare indolore a pagina 263, dove Genna mette fra caporali la parola “negro”, riferendo il discorso di una guanciuta signorina che di lì in poi verrà identificata nientemeno come “La Donna Dei Negri”. L’utilizzo con le pinze, scandalizzatissimo, di una parola formalmente corretta, derivante dritta dritta dal latino e sulla quale ha da eccepire solamente il birignao del politically correct è la spia di un disagio linguistico che va ascritto al simultaneo e inconciliabile doppio desiderio di destare scandalo da un versante (l’eroina, le drag queen, l’eutanasia clandestina) e dall’altro di coccolare il senso civico dei lettori che non si riconoscono nella fauna caratteristica dei villaggi vacanze, e che non accetterebbero un “negro”senza virgolette o maiuscole. Se un autore per trecento pagine non ha ritegno a parlare di “apodissi” e “disponibilità passiva ad attuare una partitura attiva”, ovvero a darsi della “merda” con cognizione di causa e a descriversi mentre pratica sesso orale su tre travestiti più aggressivi della media, e poi improvvisamente si scandalizza e monta un solitario corteo di protesta contro l’utilizzo della parola “negro”, be’, decisamente qualcosa non funziona.

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