domenica 19 aprile 2009

Barrichello, Martin Amis e la Gazzetta del giorno prima

(Gurrado per Quasi Rete)

Unica parziale consolazione è la Gazzetta del martedì. Ora io non sono nessuno per giudicare cosa sia meglio fra Oxford e Cambridge, né a essere sinceri il problema mi tange, e a essere ancora più sinceri avrei preferito non dover nemmeno lontanamente pormi la questione. Ma d’altronde sono qui, e l’unica cosa che so per certa è che a Oxford i giornali italiani arrivano sfasati di un giorno, e sono Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera e uno che riporta il titolo di un celebre dialogo di Platone, mentre a Cambridge arrivano anche la Stampa e il Giornale e sono disponibili dalle 11 del mattino del giorno stesso. Si vede che la strada per Oxford è più difficoltosa di quella per Cambridge; fatto sta che se mi girasse l’uzzolo di leggere notizie italiane in tempo reale il percorso più elementare sarebbe prendere il treno, o il pullman, o la littorina, o la diligenza, o quello che c’è alle 8 per arrivare a Cambridge a metà mattinata, e così tutti i giorni. Troppo complicato, tanto vale accontentarmi dei giornali in differita.

Certo, c’è sempre l’internet. Ma l’internet non è la stessa cosa, e non solo perché non si può leggere alla ritirata (oddio, col wireless…). Anzi, ora che c’è l’internet comprare un quotidiano ha il sapore del superfluo, costituisce forse l’ultimo atto che ci sia rimasto in eredità dal mai abbastanza rimpianto edonismo reaganiano. È quella che Georges Bataille (o Roland Barthes, o Michel Foucault – questi filosofi francesi sono tutti uguali) chiamava la dépense, la spesa sprecata. Non solo offre a pagamento ciò che l’internet offre gratis: occupa spazio, sporca le dita, domani sarà inservibile. Eppure ho visto con gli occhi miei gente che comprava la Gazzetta del Mezzogiorno, ovviamente non a Oxford, al solo scopo di incartarci il pesce o la verdura, attendendo con una sorta di rispetto totemico che arrivasse il giorno dopo, non osando nemmeno sfogliarla o sfiorarla prima che scadesse. L’altra Gazzetta, la mia e la nostra, quella dello Sport, me la concedo una e una sola volta a settimana, il martedì appunto, quando dai più reconditi anfratti del proprio sgabuzzino il giornalaio indiano (in Inghilterra tutti i giornalai sono indiani, chissà se in India sono tutti inglesi) estrae una copia della Gazzetta del giorno prima, ovvero il lunedì, che riporta risultati e cronache delle partite del giorno prima ancora, ovvero la domenica.

Ho notato che, lasciate decantare un giorno, le notizie perdono d’attualità meno velocemente. Questo mi consente di trasformare la Gazzetta del martedì in un settimanale da assaporare con calma: tanto più che alcuni dettagli le permettono di conservare una patina arcaica che la fa valere la sterlina virgola sessanta che costa. Où sont les Gazettes d’antan? Sorprendentemente sono finite a Oxford. Innanzitutto il formato non s’è ancora ristretto al tabloid: è rimasto un broadsheet che mette soddisfazione estrema a leggerlo a letto con le braccia spalancate in un platonico abbraccio. (Carl’Annese, appena torno in Italia, se mai tornerò vivo, organizziamo un sabotaggio delle rotative rosa e le dilatiamo fino a stampare delle Gazzette enormi, di dieci metri quadri). Ne consegue che il carattere è più grande e più comodo a decifrarsi. La vera sorpresa arriva superata la prima pagina: le pagine interne sono in bianco e nero. Tutte. Ci sono delle maglie, ad esempio quella del Genoa o della Fiorentina, che in bianco e nero rendono decisamente di più, come Ingrid Bergman. Il technicolor è un’invenzione rispettabile ma il bianco e nero sguinzaglia la fantasia e la memoria (ossia le uniche due cose che bisogna necessariamente portarsi all’estero); conferisce alla cronaca sportiva il fascino di una traballante provvisorietà e, anche se arrivano con un giorno di ritardo, le notizie sembrano tutte urgentissime perché sembrano dettate da un telefono pubblico. Le pagine non sono tutte, alcuni pezzi mancano, ma questo aggiunge thrilling al fascino e aumenta il peso specifico di ogni singola partita che riesca a trapelare fin quassù. Mai avrei pensato di leggere con tanta trepidazione la cronaca di Torino-Catania, per non dire tutte, tutte le pagine di basket e pallavolo nonché – forse dovrei vergognarmi – la colonna coi risultati del sollevamento pesi. Se ogni settimana si ripropone il miracolo di una Gazzetta degli anni ’80 con le cronache dell’altro giorno, vi pare troppo dover aspettarla ventiquattr’ore?

Resta insoluto il problema dell’annosa rivalità fra Oxford e Cambridge. Per quel che, con riverenza delle caste orecchie, me ne fotte sono potuto giungere all’equilibrata conclusione che la conclamata superiorità di Oxford da queste parti venga giustificata dalle recenti vittorie contro gli arcinemici nell’annuale gara di canottaggio, in tal caso equiparata a un’ordalia. Secondo seri studi statistici (temo finanziati dalle stesse gloriose università) la vittoria arride storicamente all’equipaggio che assomma più chili nel complesso, ragion per cui la superiorità di Oxford si basa sul fatto incontestabile di avere una dozzina di studenti più grossi. Quando si dice il peso della cultura. D’altra parte, cos’ha prodotto Oxford? Richard Dawkins, capirai. A un esame più approfondito emerge che probabilmente la conclamata superiorità di questa valle di lacrime sia da ricercarsi in un più generale favore ambientale, che è ovunque e in nessun luogo. Infatti a Oxford non ci si trova male, se si ha l’accorgimento di darsi di tanto in tanto delle tacchettate nel basso ventre così da provare un periodico benché momentaneo sollievo.

A Oxford sono tutti felici. Sono felici i professori che vanno in giro con la bocca sporca di ketchup, o la cerniera dei pantaloni abbassata, o col paltò sempre chiazzato di chissà cosa, e non sono ancora riuscito a capire se il paltò rimane lo stesso e le chiazze si spostano o se il paltò viene cambiato ma le chiazze restano lì. È felice lo studente greco che cammina su e giù per la periferia settentrionale ondeggiando pericolosamente sotto il peso dei propri capelli e fermando passanti pur vagamente mediterranei, quorum ego, per chiedere: “Sei Greco?” “No” “Pensavo che fossi Greco, sicuro di non esserlo?”. È felice il ricercatore giapponese che si apposta all’angolo fra le due strade principali e passa la serata a fare un cenno di disinvolto saluto prima a tutte le donne sole, poi ai gruppetti, quindi ai gruppi con almeno una donna dentro, infine a tutti indistintamente, nella speranza che prima o poi qualcuno lo scambi per qualcun altro e gli risponda. Sono felici le signorine dai capelli turchini in coda al biroccino dei mussulmani che vendono patatine fritte e cheesburger halal, mentre un vento del demonio scoperchia la microgonna svelando le coscione nude – delle signorine, non dei mussulmani. Al venerdì e al sabato sera un’ispezione aerea delle strisce di vomito lasciate qua e là sull’asfalto rivelerebbe la scritta I’m happy. Le statistiche dei suicidi fra i membri dell’Università non vengono pubblicizzate quindi le ignoro, ma ci foss’anche un solo caso all’anno significherebbe ammettere che qualcuno almeno trova l’inferno una prospettiva più attraente. Se non altro fa più caldo.

Oxford è Pavia al cubo, e detto da me non è un complimento. Mi fa venire il mal di testa solo a pensarci. Martin Amis, che qui è nato e vissuto e dovrebbe saperne più di me, ha scritto nel 1973 (traduco): “Lo skyline di Oxford offriva una serenità fasulla sottoforma di pietra dorata su sfondo azzurro nitido, che ovviamente rigettavo. Mi chiedevo cos’avesse mai fatto pensare a questa città di essere tanto diversa dalle altre. Se uno guarda ad altezza d’uomo e resta coi piedi per terra, non vedo come si possa ignorare la brutta, normale, noiosa e casuale vita di strada coi negozi di dischi, le lavasecco, le banche. Una volta che smetti di seguire le linee architettoniche lì in alto è un posto come qualsiasi altro. Ma Oxford non la pensa così; non ho mai conosciuto un luogo tanto pieno di sé.”

Insomma Oxford non solo è bruttina e presuntuosa come molte figlie di buona famiglia; è anche talmente noiosa che io, pensate, mi sono messo a seguire la Formula1. La Formula1, vi rendete conto? Ossia quella cosa in cui venti automobili una dietro l’altra girano tutte nello stesso senso una volta, poi ancora, poi ancora, e così via per un paio d’ore; uno sport che viene tradizionalmente trasmesso alle due del pomeriggio al solo scopo di favorire il riposino dopo pranzo, così come i cantanti d’opera hanno la consegna inderogabile di urlare talmente tanto da non far capire un accidente di quello che dicono. Ecco a cosa mi sono ridotto. Il calcio purtroppo non basta, per quanto Chelsea-Liverpool di mercoledì scorso sia stata tanto appassionante quanto incongrua nel risultato, 4-4 come un Foggia-Atalanta di tanti anni fa, e addirittura chiudendo gli occhi davanti alla tv sembrava di star ascoltando la telecronaca di una partita di calcio e non il funerale della Regina Madre.

Della Formula1 di quest’anno mi diverte soprattutto Barrichello, che qui alcuni indigeni pronunciano grossomodo “Burrycello”. Dopo anni a fare il secondo di Schumacher, onorando un contratto in cui gli veniva sostanzialmente proibito di vincere alcunché, era fuggito da un costruttore che gli aveva messo a disposizione per i Gran Premi una sorta di triciclo, come dimostrano i lusinghieri risultati che ne ha ottenuto. Quest’anno, con un colpo di coda per non dir d’altro, s’è ritrovato sbalzato nell’abitacolo della scuderia più attrezzata del momento e sta conducendo un Mondiale di primissimo piano non fosse che il suo compagno di squadra, all’improvviso, s’è messo a fare molto meglio. Ieri Burrycello era in pole position a pochi secondi dalla fine delle qualifiche: mezzo minuto dopo era in quarta posizione. Oggi era saldamente sul podio fino a tre quarti di gara: è arrivato quarto dietro il suo compagno di scuderia.

Tuttavia riguardo alla Formula1 sono ancora assolutamente un neofita e anzi ho delle questioni che vorrei proporvi, trovandole insolubili con le sole mie forze:
1) la scelta di far disputare dei Gran Premi in Asia nel pieno della stagione dei monsoni fa parte di una più ampia strategia di fusione dell’automobilismo con la pallanuoto?
2) Lewis Hamilton è stato sostituito dal suo fratello ritardato?
3) perché quest’anno le Ferrari non partecipano al Mondiale?

Medito medito e non trovo risposta. Ma non mi adonto, realizzando che anche il calcio ha i suoi enigmi impenetrabili. Ad esempio durante il big match di ieri, che qui non era Juventus-Inter ma Arsenal-Chelsea, sul finire del primo tempo Florent Malouda ha segnato l’1-1 e ha esultato (provate a seguire le mie istruzioni) tenendo i due pugni chiusi (provate), con il pollice verso l’alto e l’indice verso il lungo come una pistola (fatto?), unendo i polpastrelli del pollice col pollice e dell’indice con l’indice e puntando l’unghia dell’indice verso il basso, ossia verso il terreno di gioco. A chi era rivolto il gesto, oltre che alla telecamera e quindi a me per estensione, cos’avrà voluto significare? Ci ho pensato ore e ore prima di ridurre la scelta a tre alternative:
a) “Ho infilato la palla esattamente nel piccolo pertugio che si era dischiuso fra il portiere e il primo palo”;
b) “Se non pareggiavamo prima che finisse il primo tempo, nell’intervallo Guus Hiddink ce lo faceva in questa guisa”;
c) “È sabato sera e mi voglio divertire”.

E per concludere una bella notizia: stanotte ho sognato Maria Sharapova. Almeno questo è gratis. Arrivederci.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.