sabato 11 aprile 2009

La filosofia? Tutte bolle!

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Contro il logorio del pensiero moderno – contro il vuoto spinto di Vattimo o i calembour di Severino o il razionalismo d’accatto di Odifreddi o l’ateismo da passeggio di Ruggenini – dalla Germania arriva il primo volume di Sfere, corposa trilogia filosofica di Peter Sloterdijk. Arriva peraltro con notevole ritardo, a più di dieci anni dalla pubblicazione in lingua originale, e quando il resto della trilogia è stato non solo già terminato ma anche tradotto altrove; così che i più dritti, quelli che se lo sono già letti non dico in Tedesco ma almeno in Francese, prendono in mano la traduzione italiana già sapendo come andrà a finire due volumi dopo.

Sloterdijk non è un pensatore cattolico. Qua e là è venato di blando protestantesimo, alcuni lo hanno definito gnostico. Piuttosto, il suo sistema è fanta-hegeliano, come si può intuire dalla tripartizione di Sfere; così dai titoli dei tre volumi (Bolle, Globi e Schiuma) si può intuire che nelle sue aspirazioni ci sia una dettagliata critica della ragion tonda. La rotondità delle immagini che ricerca per definire la società umana, attuale ed eterna, si contrappone implicitamente tanto all’ottusa linearità dell’iper-razionalismo e dell’iper-scientismo, di gran voga in questi tempi, quanto all’incontrollabile liquidità delle più celebri teorie di Zygmunt Bauman.

A voler filosofare col machete, i tre volumi di Sloterdijk si possono riassumere in tre righe. Procedo. I rapporti fra persona e persona non sono lineari (sulla direttrice io-tu o del più egoistico io-io) ma circolari: se io parlo con la donna che amo o con un passante ignoto, in entrambi i casi non escludo l’ambiente che ci circonda ma lo comprendo e non posso chiamarmene fuori. Questo perché tutti gli esseri umani hanno condiviso l’esperienza fetale, nella quale instaurano un rapporto biunivoco fra sé stessi e la madre-ambiente che li comprende e li protegge, come appunto in una bolla (Sloterdijk la definisce “microsferologia”). Ogni rapporto interpersonale è il tentativo di ricreare, con alterni successi, questa stessa bolla; l’inclusione di più persone all’interno dei medesimi confini sottende la creazione di un globo (“macrosferologia”), e il terrorismo così come lo stiamo conoscendo in questi anni è volto non tanto all’uccisione del singolo individuo quanto all’intrusione nel globo e alla sua destrutturazione. Questo perché la perdita di centro univoco ha portato alla moltiplicazione di globi paralleli confinanti ma incomunicanti che richiamano la disposizione della schiuma (“sferologia plurale”). Il tutto viene spiegato con dovizia di particolari in 1.500 pagine all’incirca.

Colpisce innanzitutto la sistematicità di Sloterdijk, che partendo da un fatto naturale come la gravidanza riesce ad arrivare senza difficoltà alla filosofia politica e alla sociologia del virtuale. Non è mica poco in un’era di filosofi impegnati per lo più a scrutarsi l’ombelico o a tirare per i capelli teorie generali al solo scopo di dimostrarsi proni all’andazzo su questo o quel fatto di cronaca politica, giuridica o medica. E poi Sloterdijk scrive benissimo e sa pressoché tutto, dice cose difficili con una prosa comprensibile e contemporaneamente svela connessioni intricatissime dietro le faccende che ci appaino più banali.

Parto e gravidanza, più di ogni altra cosa, sono sotto la sua lente focale per tutto il primo volume di Sfere. Centinaia di pagine sono dedicate da Sloterdijk non solo al rapporto madre-figlio ma addirittura alla placenta: che costituisce il gemello muto per i primi nove mesi di vita di ciascuno, una sorta di angelo custode fornito dalla natura per attutire l’impatto col mondo. E forse gli intellettuali italiani d’oggidì possono essere tramortiti all’idea che Sloterdijk – un filosofo dichiaratamente non cattolico – riconosca ampiamente come vita i nove mesi che ciascuno trascorre nella pancia della mamma; e, cosa ancora più scandalosa, che la gestazione decida così tanto non solo riguardo alla vita individuale di ognuno, ma anche all’interrelazione con gli altri, alla formazione della società e alla costruzione più o meno artificiale di totem giuridici o culturali.

Sloterdijk pare porsi al contempo dentro e fuori dal Cristianesimo, in perfetta coerenza con le proprie teorie. Non entra nel merito della fede personale, a differenza di molti che sbandierano grettamente agnosticismo e ateismo come unici lasciapassare validi per la filosofia, e rigetta senza troppi problemi l’etichetta di pensatore confessionale. Preferisce attingere a piene mani dalla tradizione cristiana, dai Padri della Chiesa ai mistici: nelle dieci pagine di intensissima bibliografia spiccano San Basilio Magno, San Gregorio di Nissa, San Giovanni Damasceno, Pascal, la Legenda maior su Santa Caterina, la vita di Sant’Antonio Abate, e poi Jacopo da Varagine, Riccardo di San Vittore, Innocenzo III, Tommaso d’Aquino. Abbondano i riferimenti alla Bibbia e a un curioso gioco inventato da Nicolò Cusano, in cui bisogna lanciare una palla ammaccata lungo una spirale cercando di avvicinarsi il più possibile al suo centro: la spirale è il creato, il centro è Dio, la palla ammaccata è l’uomo. Sloterdijk, in Bolle e più ancora in Globi (che mi auguro venga tradotto presto) ricama su questo gioco alcune fra le pagine migliori della sua sferologia.

In particolare, Sloterdijk dedica una notevole attenzione critica a Sant’Agostino, del quale cerca di fornire una lettura svincolata tanto dal timore riverenziale quanto da una preconcetta ostilità. Per lui Agostino non è soltanto ascrivibile alla grande tradizione ecclesiastica né come tale può essere superato e consegnabile ai polverosi archivi della storia della filosofia. Nel decimo capitolo delle Confessioni Sloterdijk rinviene la miglior descrizione teologica dell’“accompagnatore originario”, ossia dello spazio che si crea intorno al feto e che lo accompagna per tutta la vita sotto forma di gemello ipotetico o di istintivo sentimento di un’assenza. Scrive Sant’Agostino: “Dove ti trovai, per conoscerti, se non in te e sopra di me? (…) Tardi ti amai, perché tu eri dentro di me e io fuori. (…) Eri con me, e non ero con te”.

Con la sua trilogia Sloterdijk si incarica di ricercare nelle infinite incarnazioni di due millenni di cultura quest’interior intimo meo, il “più vicino a me di me stesso” che Sant’Agostino aveva individuato e che la filosofia ufficiale, col passare del tempo, ha insistito nel negare. A differenza dei suoi contemporanei, Sloterdijk ha voluto concentrarsi non sull’immediato e sul conveniente ma sul costante e sull’eterno. L’ha fatto magistralmente e, credo, sarà ricompensato: a lungo termine, quando (come notava John Maynard Keynes) saremo tutti morti, qualcuno scriverà la storia della filosofia di questo reo tempo e spariranno d’incanto tutti i Vattimo e gli Odifreddi e i Ruggenini, nei confronti dei quali siamo tanto bendisposti. Resterà invece Sloterdijk e sarà forse l’unico, forse l’ultimo.

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