lunedì 22 giugno 2009

Sabato, domenica e lunedì

(Gurrado per Quasi Rete)

Nonostante la candidatura di dieci parlamentari alla carica di speaker della Camera dei Comuni (competizione talmente entusiasmante che corro il rischio concreto di addormentarmi prima di finire questa stessa frase), negli ultimi tre giorni l’attenzione degli Inglesi s’è focalizzata su tre eventi sportivi in fila, diversissimi fra loro e ognuno indicativo di una differente maniera di concepire lo sport. Anzi, il nome di ciascuno è diventato un brand e basta pronunciarlo per scatenare memorie e aspettative non sempre in linea con ciò che sarebbe prevedibile: Ascot, Silverstone, Wimbledon.

Ascot dovrebbe far pensare ai cavalli e invece fa pensare ai cappelli. Sabato ne ho viste quattro o cinque – tute insieme, poiché si muovono a frotte – di signorine col copricapo originale che avevano avuto la bella pensata di tenerlo fino a Oxford e così andare conciate una volta tornate dalla stazione. Non voglio immaginare che tortura il viaggio per chi se l’è trovate nello stesso scompartimento (“I’m sorry, signorina, temo di avere una sua piuma nel naso”). Non oso immaginare se invece hanno viaggiato in pullman, con spazi ben più costipati (“I’m sorry, signorina, la sua piuma s’è impigliata fra i tergicristalli”). Non posso nemmeno immaginare l’eventualità che abbiano preso un taxi (“I’m sorry, signorina”, crash). D’altra parte i cappelli – sempre più bizzarri, sempre più eccentrici, tanto che un domani l’unica maniera di farsi notare sarà portarne uno semplicissimo, nero con veletta, o non portarlo affatto e tenere i capelli al vento, che da queste parti non manca mai per la gioia della mia cervicale – sono la risposta del genio femminile al genio maschile che ha inventato i nomi dei cavalli, di cui già discettavo su queste pagine. Ma stavolta hanno stravinto i cappelli: nella classifica del Royal Ascot non vedo nessun’alzata d’ingegno, nessun Errata Porridge, nessun Poncho Pilato; ha vinto un cavallo dal nome snob e carico di riferimenti culturali, Yeats, sconsideratezza enorme visto che i cavalli grazie al cielo non sanno leggere, e infatti corrono felici tutta la vita e dopo morti la loro carne è ottima. I poeti camminano lenti e non mi azzarderei mai a mangiarmene uno, nemmeno da vivo.

Silverstone dovrebbe far pensare alle automobili e invece fa pensare a una montagna di carte bollate. Ho notato un curioso parallelismo fra il GP d’Inghilterra e il locale governo, anzi più in generale la locale classe politica. Presumo che in Italia sia arrivata notizia delle curiose note spese dei parlamentari di Westminster. In Inghilterra la notizia è arrivata fino a un certo punto: sui documenti che lo stesso Parlamento aveva deciso di rendere pubblici, per via della fiducia e della trasparenza e bla bla bla, si erano formate casualmente delle cospicue macchie rettangolari d’inchiostro che non sono risultate trasparenti affatto. Di alcuni parlamentari (uno a caso: Gordon Brown, primo ministro) si poteva leggere soltanto il nome e il saldo complessivo. Il resto della pagina restava completamente occultato e ciò non ha favorito la fiducia generale nella politica, già piuttosto scossa dalla scoperta che buona parte dei parlamentari avesse utilizzato soldi pubblici per l’acquisto di prese triple, pannolini e villette. In Italia, a quanto ne so, nessuno ha fatto notare che la stessa classe politica inglese, con codazzo di giornalisti più o meno asserviti e quant’altro, ha criticato per decenni la corruzione tardoimperiale della politica italiana, ma pazienza. La situazione è tale che il governo va avanti cieco e zoppo, la classe politica si riproduce per gemmazione e inerzia, tutti invocano grandi cambiamenti e nessuno muove un dito – salvo i quattro geni i quali sostengono che l’unica soluzione per porre fine alla corruzione politica sia passare dal sistema maggioritario al proporzionale. In Italia, a quanto ne so, nessuno (nemmeno il povero Mariotto Segni, che oggi ha stabilito il record di sedici anni di elezioni perse) ha fatto notare che negli anni ’90 per porre fine alla corruzione politica eravamo passati dal proporzionale al maggioritario. In Italia la politica sarà sempre un teatrino, ma nella Gran Bretagna di oggi è una danza macabra.

Con la Formula1 sta accadendo la stessa cosa. L’incredibile Sflash Gordon Brown, il premier dalle dimissioni più lente di tutti i mondi, passando da Downing Street ai paddock si fa in due e diventa la premiata ditta Mosley & Ecclestone, casualmente britannici entrambi. I quali britannici entrambi stanno cavalcando una tigre morta dal momento in cui le principali case automobilistiche hanno annunciato l’intenzione di disertare la parodia di mondiale che i due stanno organizzando per il prossimo anno. Ieri a Silverstone s’è corso il primo Gran Premio del futuro anteriore, quello il cui ordine d’arrivo andava scorso al netto delle scuderie in via d’estinzione. Con la differenza che sparendo dalla Formula1 la Ferrari & co. andranno a prosperare altrove, magari in un nuovo campionato fatato, con tre macchine ciascuna, con piloti a contratto per accendere facili voli di fantasia, con regole comprensibili anche a chi non è laureato in giurisprudenza, lessico comprensibile anche a chi non è laureato in ingegneria e classifiche emozionanti perfino per gente come me che l’unica macchina sportiva che concepisco ha due ruote, altrettanti pedali e sul sellino un poveraccio che sputa sangue. Ecclestone & Mosley, invece, resteranno con la loro Formula 1 privata che se non si estinguerà sarà comunque ridimensionata a Formula½, alla quale potranno partecipare anche i sopracitati cavalli Errata Porridge e Poncho Pilato purché muniti di kers.

Ieri, mentre i cronisti di BBC1 tentavano invano di concentrare l’attenzione del pubblico – coi propri velleitari strilli, voi non avete idea di quanto suoni falso un Inglese che finge di essere emozionato quando invece sta visibilmente pensando al tè con gli scones imburrati e vergognandosi di dover guadagnarsi da vivere urlando in tv contravvenendo a ogni regola di decente educazione – sulla mancata vittoria di Jenson Button, o sull’improvvisa involuzione di Lewis Hamilton (questo campione che l’anno scorso era quasi riuscito nell’impresa di perdere due mondiali di fila), la verità era che trecentomila spettatori spalmati in tre giorni hanno assistito ai primi passi del corteo funebre della Formula1. L’ha forse notato Eddie Jordan, fra le righe e sotto gli occhiali, quando s’è detto entusiasta del fatto che la Formula1 potesse ancora richiamare un pubblico così numeroso, sottolineando maliziosamente l’ancora come solo un pokerista gesuita avrebbe saputo. E poi, con quel suo mento aguzzo e il naso triste come una chicane, ha guardato verso gli spalti che si svuotavano via via e si sarà chiesto in silenzio: “Chissà dove andranno, l’anno venturo”.

Signori, giù il cappello (pure voi, signorine di Ascot): oggi è iniziato Wimbledon, che dovrebbe far pensare alle racchette e invece fa pensare alla pioggia. (Be’, personalmente mi fa pensare alla Sharapova ma so che, pur essendoci vari individui che condividono questa mia associazione d’idee, essa da un lato potrebbe annoiare buona parte del pubblico, dall’altro potrebbe far planare chissà dove un blog che non mi risulta essere vietato ai minori di anni 21). Non si può capire il fascino perverso di Wimbledon se non si ha una spruzzata di etica protestante: attenzione ossessiva per il decoro dei capi d’abbigliamento, un compiacimento più che sadico per l’eliminazione diretta e rispetto assoluto del riposo domenicale. La domenica era concepita come sincope che separava le due settimane, il torneo delle belle speranze dal torneo della dura realtà; ma ogni tanto ci si metteva la pioggia e scompaginava l’onda lunga dei piani di Enrico VIII prima rendendo immancabilmente impraticabile il terreno sul quale era atteso il match più affascinante, quindi costringendo gli spettatori alla lunga contemplazione inane dei teloni stesi sul prato per ore e ore, infine facendo slittare la partita al giorno dopo, e così via con un effetto domino che trasformava la domenica – di solito ironicamente soleggiatissima – in giorno cuscinetto per recuperare i turni arretrati. Era l’annuale vendetta degli elementi sulle leggi umane e razionali.

Da quest’anno, il campo centrale di Wimbledon è dotato di tetto ritraibile come una Spider. Alle prime gocce si tira una leva e il terreno di gioco diventa uno scrigno inespugnabile, ci fossero anche tutt’attorno gli angeli del Signore che suonano le sette trombe dell’apocalisse. Non fosse che finirei per trovarmici sotto anch’io, mi auguro anzi presumo che la pioggia busserà con insistenza su questo tetto che non s’aspetta: pioverà e pioverà e sarà il suo paraklausithyron, il poema della tradizione classica greca che l’autore vanamente rivolgeva all’amata di fronte alla sua porta chiusa – dietro la quale la detta amata stava dormendo sonni tranquilli ovvero intrattenendo tre lottatori di pancrazio ovvero leggendo le rasserenanti massime di Epitteto: “Nessun problema è mai insolubile, dappoiché ci si può sempre impiccare”. Wimbledon senza pioggia non mi sembra migliorato, mi sembra sterilizzato: come quasi tutto in un mondo che vuole le olive senza nocciolo, il vino senza pazienza, la fede senza impegno, i figli senza matrimonio e la vittoria senza fatica. È dal 1936 che un tennista britannico non vince Wimbledon, anche se quest’anno c’è grande fiducia intorno ad Andy Murray. Ma io sono sicuro che per punizione verrà eliminato in semifinale, così imparano a ribellarsi contro il corso della natura.

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