mercoledì 12 agosto 2009

Apriamo il fuoco

(Gurrado per Il Foglio)

Come ci organizziamo per il 150° dell’Unità d’Italia? Che facciamo del Tricolore e delle bandiere locali? Insegniamo prima il dialetto agli studenti o l’italiano ai professori? Risposte a questi e altri quesiti d’attualità sono già state fornite nel 1969 da Luciano Bianciardi nel suo ultimo visionario romanzo, Aprire il fuoco. Se siete facoltosi elettori di sinistra improvvisamente riscopertisi patrioti, potete leggerlo nel primo volume dell’Antimeridiano Isbn che raccoglie tutta la narrativa bianciardiana in formato deluxe. Se siete ruspanti sostenitori della Lega e volete favorire le piccole aziende milanesi, potete fare un salto in via Ruggero di Lauria e comprare il singolo romanzo in edizione ExCogita direttamente dalle mani della figlia di Bianciardi. Quale delle due posizioni sosteniate, scoprirete di avere ragione.

Dunque, il Tricolore. In Aprire il fuoco ritorna ossessivamente ed è ben raro per un romanzo di quegli anni. Nell’avanguardista e radicale casa Porzio, al veglione del 31 dicembre ’58, le tre figlie della padrona di casa vestivano una di verde, una di bianco e una di rosso “e non si scostavano mai l’una dall’altra, badando bene che l’abito bianco stesse sempre nel mezzo”. Veniva servita un’insalata di verdure venete: “il trevigiano rosso radicchio, il songino verdone e la candida verza”. Ciò non si spiega se non col chiarire che Bianciardi ha ambientato Aprire il fuoco al tempo presente ma ha glissato sull’avvenuta Unità d’Italia: così che all’epoca della narrazione coesistano Giorgio Gaber che canta Porta Romana e Cesare Correnti che offre un caffè all’autore e voce narrante, una vitalissima Fallaci che si scatena col twist e uno spietato maresciallo Radetzky che ordina e capeggia l’imperial regia repressione. Il Tricolore patrio è ostentato in nome dell’unità nazionale ma anche come bandiera locale di una regione dell’Impero austroungarico; gli austriacanti invece lo osteggiano perché non accettano che nessun altro vessillo si affianchi al giallonero.

Tutto sta, insomma, a intendersi sulla natura dell’oppressore. Stiriani, carinzi, boemi e croati hanno la principale caratteristica di parlare un italiano ridicolo: dicono “kwanto” invece di “quando” e non di rado si rifugiano in un incomprensibile vernacolo che del tedesco conserva solo qualche esclamazione qua e là. Bianciardi invece – inteso come protagonista e voce narrante –insegna ai tre figli di casa Porzio l’italiano più limpido possibile e si permette perfino di correggere la metrica del Tasso. Tuttavia, in spregio all’oppressore, i radicali si collegano alla dialettofona tv romana (“Gari amigi bbonasera”) e, per sputare le peggiori offese in faccia agli sbirri austriaci, Bianciardi il purista analizza come si possano usare allo stesso modo “due sinonimi di diversa origine dialettale” aggiungendone via via altri che non riferisco. La lingua di Aprire il fuoco è un impasto di grossetano, ligure, milanese e romanesco, con singole puntate nei più disparati dialetti meridionali per creare una koiné linguistica impiantata su una solida struttura sintattica di italiano cristallino. L’italiano serve a creare una nuova coscienza nazionale, il dialetto a unificare i diversi sforzi verso una direzione comune.

La quale direzione sono le cinque giornate di Milano, che Bianciardi data a metà marzo 1959. La città compatta sacrifica il proprio benessere per elevare barricate di automobili e frigoriferi contro l’oppressore. Le uniche voci critiche sono di Carlo Cattaneo e Giorgio Bocca, il quale stima la rivolta “cosa futile e non risolutiva, un’evasione folcloristica”. Per il resto la città mette da parte le divisioni politico-sociali e tutta unita combatte, resiste e alla fine cade. Fra le ragioni del fallimento Bianciardi indica l’errore “di credere che alla rivoluzione debbano necessariamente seguire nuove istituzioni di governo”. E presumo, a latere, anche comitati celebrativi per istituzionalizzare e sterilizzare la rivoluzione andata a buon fine: una nazione sussiste invece in quella che Gentile chiamava continua contemporaneità della storia, della quale Aprire il fuoco è la miglior traduzione narrativa. Altrimenti si ricade nell’autocitazione e si finisce per issare capziosi distinguo fra gli eroismi di ieri e di oggi.

Facendo tesoro di quest’esperienza, benché virtuale, si potrebbe sostituire il bolso comitato del 150° con uno più creativo, per il 50° delle “gloriose giornate dell’immaginaria insurrezione milanese del 1959”, come specificato dal sottotitolo di una vecchia edizione Bur del romanzo. Da trasformarsi l’anno prossimo in ente (immaginario) che vigili sulla corretta commistione fra bandiere nazionali e simboli regionali, italiano letterario e parlate locali: un comitato per il Risorgimento permanente.

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