giovedì 10 settembre 2009

Chiacchiere vacanti: Michela Murgia

(Gurrado per Books Brothers)

Gurrado
: Ho qui sulla scrivania (be', sul tavolo del salotto) la mia copia di Accabadora, che poi è la tua in quanto me l'avevi spedita con dedica rallegrando il mio soggiorno inglese. Poiché non ho fissa dimora e ho dovuto darti l'indirizzo del lavoro, Accabadora mi è stato portato da una collega direttamente nel mio angolo di ufficio, il che ha reso l'omaggio ancora più gradito: visto il contesto straniero, ho reagito percependo istintivamente Accabadora come romanzo italiano e come tale ho preso a leggerlo (beninteso, una volta uscito dall'ufficio) mentre forse tu volevi che venisse percepito come romanzo sardo in contesto italiano. Lo fai pure dire a Maria a pagina 24: "Non è vero che è in Italia, siamo staccati! L'ho visto sulla cartina". Dici che sono partito da una prospettiva sbagliata?

Murgia: Se il punto di partenza è scovarci ambizioni etniche, allora sì, è di sicuro la prospettiva sbagliata. Ma siccome spesso da punti di partenza falsi si arriva in luoghi insospettabilmente ameni, la tengo buona e replico che Accabadora per tutto il tempo della sua stesura è appartenuto a me, che indubbiamente appartengo alla Sardegna, che però appartiene al mare. Quindi questo libro è un libro marino, anche se il mare ci compare solo nel sogno in cui Nicola teme di morirci dentro. Come in tutte le identità, del resto.

G: E infatti nello stesso punto della stessa pagina Maria spiega che la Sardegna è staccata perché "c'è il mare", dunque tutto torna. Questo mi conferma l'impressione che in Accabadora tu abbia pesato ogni singola parola, magari a costo di apparire se non forzata quanto meno molto discosta dalla tipologia di prosa - più fluida e scanzonata - alla quale sono abituati i tuoi lettori più fedeli. Un romanzo marino o marittimo, dunque: interessante definizione che m'era sfuggita dal novero delle possibili. Senza scomodare Moby Dick che è di tutt'altre latitudini e tempi, mi viene in mente un solo romanzo di mare però grande e grandissimo: Horcynus Orca di Stefano d'Arrigo. Ma forse sto di nuovo sbagliando prospettiva, e farei meglio a cambiar mestiere.

M: Demone, non mi farai cadere nella trappola di giocare a "trova la differenza" con Horcynus Orca, sapendo che morirei schiacciata dalla mia pochezza alla terza riga di sinossi. Certo, anche se non me la sono raffinata per vent'anni come D'Arrigo, indubbiamente la prosa di Accabadora è molto diversa da quella mia che l'ha preceduta, ma questo dipende dal fatto che non ne è l'evoluzione. Ho la fortuna di possedere più registri, e certo questa storia non poteva essere raccontata con il linguaggio spurio de Il mondo deve sapere, che comunque, checché ne dicano i miei editori, non ho mai considerato un esordio letterario. La scelta della lingua era determinante per più motivi; gli scrittori sardi hanno un handicap di partenza notevole nelle aspettative di esotico di una certa fascia di lettori. Io non sono minimamente interessata ad intercettare quelle, e volevo si capisse.

G: Bene, dunque sintetizzando potremmo dire che il tuo target non è Briatore – e tu sai quanto mi costi un’affermazione del genere nei confronti di colui che considero il mio ideale modello di uomo. Ma invece di coinvolgerti in animate discussioni su eventuali biondone vorrei parlarti del ministro Brunetta: sai che quando, qualche settimana fa, ha lamentato la glorificazione letteraria e cinematografica del precario ho pensato a te? Nota che avrei potuto anche pensare ad Aldo Nove, Mi chiamo Roberta ho quarant’anni e guadagno 250 euro al mese, o a Mario Desiati, Vita precaria e amore eterno. Insomma, mi ero detto, se il secondo romanzo di Michela parlasse ancora del mondo del lavoro, avremmo una romanziera prigioniera dei suoi lettori e soprattutto dei suoi recensori.

M: Con questa citazione Brunetta mi si conferma primatista italiano di occasioni perse per tacere. Sono convinta che dei costi umani e sociali della precarietà non si sia invece parlato abbastanza. Non nego che qualche furbetteria editoriale appresso al trend ci sia stata, ma è difficile identificarla proprio nell'unico libro sul tema che era una testimonianza diretta. Dopo Il mondo deve sapere non ho mai smesso di avere attenzione sociale per la questione, anche continuando a scriverne, ma il rammarico è che il parlarne, anziché condurre al dibattito pubblico, sembra aver legittimato il precario come nuova categoria dello spirito, più che come condizione sociale da contrastare. Se pensi che l'indimenticato Padoa Schioppa dei "bamboccioni" a suo tempo si definì precario anche lui, tanto per dire che le minchiate non distinguono tra destra e sinistra...

G: Io sono invece per una letteratura più disimpegnata, disancorata, anzi disarcionata dalla facile tigre dell'attualità. Non so se fosse il retropensiero del ministro Brunetta, ma ho notato che molta letteratura italiana patisce la sindrome dei lupini, come i Malavoglia: perde un'occasione di fare della letteratura alta - senza data di scadenza - per concentrarsi sulla contabilità spiccia e immediata. Eppure basterebbe studiare la storia della letteratura, beninteso senza esagerare: i libri che restano nei secoli (ma anche negli anni) sono quelli che non hanno la loro ragion d'essere nel tempo corrente. Un romanzo contro Berlusconi (o in sua lode) poco verosimilmente gli sopravviverà. Uno sul lento scorrere del tempo in una singola giornata, come l'Ulisse, non perde d'attualità a 105 anni dalla sua ambientazione. Quando leggo la nuova narrativa italiana - intendo dopo il secondo dopoguerra - come lettore e autore in divenire mi sento scoraggiato dalla pavidità di quasi tutti gli scrittori, che sembrano cercare apposta di non scrivere per durare.

M: Credo che il fatto che in alcune penne italiane ci sia l'angoscia di descrivere l'attimo fuggente non possa essere contrapposto in linea di principio alla questione della letteratura che sopravvive. Dal Vangelo a Gente di Dublino, passando per Anna Karenina fino al Pasticciaccio gaddiano, ci sono biblioteche intere a dimostrare storie che, pur fotografando cronologicamente un frammento del loro presente, offrono chiavi più che valide anche al nostro. È lo sguardo di chi narra che fa la differenza, e in Italia in questo momento la prospettiva autoriale più in voga è quella sancita da New Italian Epic, di cui Gomorra è archetipo e sintesi. Ho la sensazione che il tempo attuale sia talmente privo di contorni, percepito come breve, che l'ansia di starlo attraversando senza traccia spinga a porsi nella narrazione in modo collaterale, come testimoni non tanto dei fatti, ma dell'averli veduti. È come se fossimo incastrati nella parte alta della clessidra nel tentativo disperato di arrestare la discesa dell'ultimo filo di sabbia, con le mani, con i piedi e anche con la parole. Non c'è bisogno di dirti che Accabadora non è per nulla in questa scia, ma non escludo di esserlo io.

G: Perché, vogliamo parlare dell’Italia De Profundis di Giuseppe Genna? No, non parliamone. Io però non mi trattengo al sentirti nominare Gomorra - che qui hanno tradotto Gomorrah con la mutina in coda, come Deborah. Io non l'ho nemmeno letto perché è come la marmite, un barattolo di cibo inglese che puzza da così distante che non c'è bisogno d'assaggiarlo; l'ho sfogliato in libreria vedendo che era scritto come un reportage di Repubblica e non l'ho comprato perché mi sembrava un'operazione di sciacallaggio fatta non tanto dalla Mondadori, che per carità ha fatto il proprio mestiere ed è stata brillante nell'operazione, quanto da Saviano in persona che non solo s'è autoeletto a martire, e vabbe', ma che ha fatto passare scientemente l'idea criminale che i metri di giudizio per la grandezza di uno scrittore fossero la sua vocazione a un martirio più o meno preconfezionato, la quantità di minacce che riceve e il numero di agenti di scorta dei quali mette a repentaglio l'esistenza. Te lo dico io che mi son preso del camorrista solo perché un annetto fa avevo previsto che Saviano, da scrittore posticcio, sarebbe finito esule nella gabbia tematica che s'è costruito da solo, non scrivendo mai più niente di nuovo e continuando a sfornare libri-inchiesta a ripetizione come un incrocio fra Gutenberg e Sandro Ruotolo. E infatti l'altro giorno leggo sul sito del Corriere scritto enorme che esce il nuovo libro di Saviano, e in piccolo che esso libro raccoglie inchieste e articoli equamente ripartiti fra vecchi e vecchissimi. Come si fa a dire che è uno scrittore, un romanziere? Non scrive, non romanza. Per non dirti che nella stessa circostanza Saviano, in quanto scrittore nazionale, rilascia un'intervista al Corriere annunciando che ha intenzione di sposarsi come vendetta, rivalsa, ripicca nei confronti di non ho ben capito cosa, presumo la camorra. Ecco, mi sono arrabbiato, lo sapevo. Tu, in quanto scrittrice di cose isolane e precarie, hai annunciato il tuo matrimonio sul Manifesto oppure sull'Unione Sarda?

M: Adoro questo tuo personalissimo modo di essere tranchant, ma su Gomorra la vedo in modo diverso. La domanda non è se sia e o no letteratura - per quel che vale, io sono convinta di sì - ma che cosa intercetti, perché la questione letteraria è sempre una questione di rappresentazione (nel caso di Saviano, anche di autorappresentazione). Ne parlammo a suo tempo a proposito della mia lettura di Travaglio come Capro Nobilitatorio, delegato a mettere in scena l'indignazione collettiva. Anche Saviano per certi versi ha ricevuto un mandato, e il numero impressionante di copie che continua a vendere a distanza di tre anni prova che non è più solo una storia da leggere; al suo acquisto probabilmente non segue nemmeno la lettura, piuttosto ha assunto valore rappresentativo, e a questo non è estraneo il fatto che l'oggetto-storia e il suo autore si siano nel frattempo sovrapposti. Comprare Gomorra oggi è liturgia pura, vuol dire associarsi simbolicamente a Saviano Martire del Coraggio e della Denuncia, e la cosa che mi sconcerta è che probabilmente gli officianti sono gli stessi (troppi per essere diversi) che al cinema celebrano il cinepanettone per distrarsi. Questa consapevolezza non inquina il mio giudizio positivo sul libro, che per me resta un ottimo esempio di narrazione transgen(er)ica. Mi trovi invece solidale nel fastidio verso chi assume la parabola personale di Saviano come paradigma per giudicare la letteratura tout court; mi viene in mente Desiati che qualche giorno fa su Repubblica affermava che la domanda rivelatoria del grande narratore è: “Quanto sono disposto a perdere per raccontare la mia storia, la mia ossessione? La risposta - e come poteva essere diversamente, dico io - è tutto”. Secondo questa visione, suppongo che anche Mein Kampf sia un capolavoro della letteratura, per quanto non romanzo (ma Gomorra è romanzo?). Ovviamente la notizia delle nozze l'ho data su Facebook.

G: Il pubblico di Gomorra mi ricorda il topo di fogna ne L'Amico Devoto di Oscar Wilde, quando dice: "E la storia parla di me? In tal caso l'ascolterò con molta attenzione, perché mi piace la narrativa". Come hai notato, c'è gente che compra Gomorrah per dimostrare di non essere camorrista; è un de me fabula narratur che si trattiene però in superficie, non va a fondo nella psicologia di persone cose e parole ma ha assunto un andamento televisivo - come tempo fa si faceva a mazzate per comparire sullo sfondo dell'inquadratura di un tg e sentirsi parzialmente coinvolti nel determinato fatto di cronaca che veniva raccontato, così oggi si compra il libro per sentirsi un po' minacciati da una camorra di plastica, per rientrare sullo sfondo dell'inquadratura benpensante. È un'epidemia di gomorrea, e Saviano è un tronista trucido. Lo stesso avviene con la pletora di commenti, per lo più inutili, che corredano blog e quotidiani online, per non parlare di Facebook e di Twitter che sarà di moda dall'estate prossima, scommettiamo? Io la notizia del tuo matrimonio l'ho appresa dalla pagina dei ringraziamenti in coda ad Accabadora (che magari in Inglese verrà tradotto Accabadorah), l'ho istintivamente messa in relazione con il curioso atteggiamento di Maria nei confronti del matrimonio e ho concluso che è bello che ci siano ancora strumenti come il libro che forniscono una netta distinzione fra autore e pubblico, fra letteratura e non, così da consentire un percorso univoco di informazioni che parte dall'autore e arriva al pubblico. Oggi tutti vogliono lo scambio, ma sinceramente che se ne fa l'autore delle informazioni del pubblico? A me ogni tanto su Facebook arriva uno sconosciuto, per lo più maschio, che dice di avermi letto e mi chiede l'amicizia, così lui potrà farsi i fatti miei e io i suoi. Non oso immaginare cosa accada a qualcuno leggermente più famoso di me. Senza contare che soprattutto questa sovraesposizione d'immagine su internet, questo stillicidio di informazioni personali gettate a cani e porci, crea un'inflazione di contenuti che finisce alla lunga per danneggiare il peso specifico della produzione narrativa di un autore. I contenuti quelli sono, non è che c'è il pozzo senza fondo, e uno scrittore dovrebbe cercare di preservarsi e vivere più appartato. Ho appena controllato, su Facebook Thomas Pynchon non c'è.

M: Phyncon, recita la vulgata, frequenta assiduamente Don De Lillo, quindi capisco che sia sazio così. Però spero mi permetterai di farti notare che la concezione dello scrittore come creatura autopreservatasi dal mondo non è solo superata, ma anche un po' cattolica. L'ipercontatto è tale solo nella misura in cui tu sei incapace di smistare gli input. Io, vuoi per abitudine, vuoi per indole, ho sicuramente un'asticella alta di tolleranza, ma il mio concetto di altezza non arriva fino ad avere un account personale su Facebook; tenerlo aperto due mesi è stato sufficiente a capire che io sono più tipa da dissocial network. Ho però altri canali, certo più filtrati, da dove mi arrivano inaspettate preziosità che non vedrei mai se non accettassi almeno in parte il contagio dell'orizzontalità. Però vorrei tornare sulla questione Gomorra per chiarire un punto che mi sembra essenziale. Ho già detto che il gomorrismo è una liturgia partecipativa, ma come atteggiamento si estende a tutta la produzione scritta che ama definirsi come letteratura della realtà. Ripeto, non c'è giudizio in questo, ma forse non assisteremo a questo fenomeno se ci fossero altri spazi o canali dove la realtà potesse tornare ad essere condivisa o messa in discussione. Un libro o i post di un giornalista blogger possono diventare simbolici solo facendo scattare meccanismi di riconoscimento che sono indispensabili socialmente, ma che fino a poco tempo fa erano generati (e controllati) da altri luoghi di senso. Giornali, per esempio. Ma anche sezioni di partito. Luoghi politici che hanno perso il loro ruolo, dove chiunque poteva partecipare delle dinamiche in cui era immerso, oppure semplicemente specchiarcisi e riconoscersi. Il fatto che oggi l'effetto community nasca attorno a un romanzo dovrebbe interrogarci sulla deriva antipartecipativa che stiamo vivendo, più che sulla salute della letteratura, e lo dico perché comunque un libro o un post di blog restano illusioni di compresenza, anche quando l'autore incarna il suo testo o il post ha i commenti aperti.

G: Be', sarà una concezione un po' cattolica ma da alcuni dettagli avrai notato che sono un po' cattolico anch'io. Mi ricordo che un paio di anni fa, recensendo Il mondo deve sapere, avevo impostato il tutto su una lettura anagogica in cui il supercapo del call center era ovviamente Dio, il responsabile del personale era il Figlio, la psicologa era lo Spirito e così via. Tuttavia non sono pazzo, nonostante i fondati sospetti dei nostri amici di Books Brothers: per arrivare a questa costruzione sono partito dal dettaglio che in origine tu avessi studiato teologia. (Cosa d'altra parte confermata dalla tua idea del gomorrismo o del savianesimo come liturgia partecipativa). Anche in Accabadora mi sembra che l'afflato religioso sia molto forte, e in fin dei conti la protagonista è una persona che apre le porte dell'aldilà. E ti dirò, non mi metto a sindacare sulla faccenda dell'eutanasia proprio perché tu hai avuto la finezza (e la bravura letteraria, ché a vendere un libro facendo polemica sono bravi tutti, pure Travaglio) di non utilizzare la storia di Tzia Bonaria Urrai, che piglia un cuscino e soffoca i malati terminali, al bieco scopo di propaganda sul fine vita. Dici che ne faranno un film? Dici che, com'è accaduto per Virzì (Tutta la vita davanti, con Sabrina Ferilli, è stato tratto dal tuo primo libro, te lo dico caso mai non te lo ricordassi), alla fine il sottinteso teorico del tuo romanzo possa trasformarsi in idée reçue talmente preponderante da fagocitare la struttura narrativa? C'è qualcun altro oltre me che scorge nei tuoi scritti, anche quelli antipapisti d'occasione, vestigia di una rigida struttura religiosa che fa ben sperare per il futuro e per la vita eterna? E, soprattutto, quando mi presenti Sabrina Ferilli?

M: Mi divertì molto quella lettura di Il mondo deve sapere, perché io stessa l'avevo legittimata attingendo a piene mani dall'area semantica ecclesiale, ma l'avevi colto solo tu. Nego però che questo filtro interpretativo derivi dallo studio della teologia, casomai dalla pratica pluridecennale di una ordinaria vita parrocchiale, cosa che in Accabadora emerge ancora più vistosamente. Sarà per questo che, non senza malignità, qualcuno ha detto che tratteggiando la figura del prete mi sono voluta togliere qualche sassolino, invece devo confessarti che in fase di pianificazione quel personaggio aveva anzi un ruolo molto meno ignavo; man mano che la storia evolveva, saltava fuori motu proprio un concerto di contraddizioni che alla fine ne ha fatto un romanzo tanto religioso quanto anticlericale. Vorrei dire che mi dispiace, ma allo stato attuale delle cose mentirei: la verità è che è un gran brutto momento per essere cattolici questo, ammesso che ne esistano di buoni. Nonostante questa inevitabile frustrazione, non avrei mai asservito la storia alle speculazioni sull'eutanasia, non fosse altro perché l'accabadura e l'eutanasia sono gesti antitetici. Credo poco nei romanzi a tesi, ma ancora di più detesto le tesi infilate a forza dentro i romanzi allo scopo di usarli come corpi contundenti in qualche contrapposizione ideologica, operazione che in questo paese, analfabeta in dialettica, spesso viene scambiata per un dibattito. Pensa che io ero convinta di aver parlato di manipolazione delle relazioni, e invece ho scoperto dai giornali che il mio primo libro era nientemeno che una denuncia del precariato. Ah, il tuo tipo di donna sta alla Ferilli come I Tre Moschettieri sta a Vent’anni dopo.

G: Più in generale, io ritengo che si debba tornare al piacere in sé della lettura; che non è tanto (o non solo) un piacere d'intrattenimento quanto di sollievo per astrazione. Uno si siede, sta zitto, legge e nel frattempo il tempo passa senza che pesi più di tanto (come invece può accadere mentre si lavora o si va a trovare i parenti o si guardano le cronache della serie C al tg regionale del lunedì sera). Meno facile mi riesce capire il piacere della scrittura: io ci sto pensando e, se non avessi deciso a priori di non trasformare questo colloquio potenzialmente infinito in intervista, a questo punto ti avrei chiesto perché scrivi, anzi, perché scrivere.

M: Questa domanda mi è stata rivolta sovente, ma mai da qualcuno che a sua volta scrive. La risposta non esiste, o se esiste è misteriosa anche per me. Posso dirti che la maggior parte delle volte scrivo per indignazione, e la scrittura allora diventa un mezzo per organizzare la rabbia e il dissenso. Ma almeno nel caso di Accabadora il motivo è stato invece il pressare di una storia, meglio ancora di un linguaggio, che mi ha forzata a scrivere mio malgrado. La differenza si vede anche nel modo: nel caso della scrittura di dissenso è tutto veloce, fluido come una sfuriata, e una volta concluso ha l'effetto relax di una droga blanda, di una sigaretta, di un post buon coitum. L'altro tipo di scrittura è invece faticosissimo, richiede un tempo dieci volte maggiore e mi devo letteralmente costringere a farlo. Le 160 pagine di Accabadora sono state prodotte in tre anni per questo motivo: è una scrittura che mi stanca; invidio chi scrive romanzi come un fiume, io mi stupisco piacevolmente di me se in un giorno riesco a tirare fuori anche una sola pagina di quel tipo. È anche molto meno acquietante dal punto di vista psicologico, eppure non so perché non posso fare a meno di farlo. Forse la risposta è proprio quella: io sono troppo pigra per fare questo come mestiere, ogni volta che scrivo c'è sempre qualcosa che mi ha costretta.

G: Vabbe', ora non voglio tediarti con la storia delle mie disgrazie - tanto più che preferirei non fare, zàcchete, la fine di Abelardo - ma da quando ho un lavoro che non ha niente a che fare con la scrittura creativa mi sono reso conto di essere diventato più produttivo. L'idea di sprecare quelle otto ore quotidiane mi angoscia talmente che mentre prima tergiversavo ora sono pronto a svegliarmi a orari oltremodo antimeridiani pur di buttar giù qualcosa; oppure divento talmente autistico da avere un'idea in ufficio, svilupparla sull'autobus, sistemare gli ultimi dettagli mentre ripongo la spesa nel frigo e poi correre a scrivere sul computer quel poco che ricordo visto che ho la pericolosa tendenza a non portare mai con me carta e penna per prendere appunti. Purtroppo questo stile di vita favorisce la produzione di articoli e impromptu saggistici ma giammai la narrativa, che ha ritmi ed esigenze tutte sue; bisognerà (spero) trovare una soluzione. Ma questi sono fatti miei e sicuramente chi è arrivato a leggere fin qui senza andare in coma è invece interessato ai fatti tuoi, magari ha anche saltato i miei interventi né saprei dargli torto visto che sono più lunghi. Magari costui dal tuo ultimo intervento in questa chiacchierata vorrebbe sapere piuttosto se una scrittrice vive meglio da sposata o no. Passo e chiudo.

M: Ora, io non so quanto ci ho messo a rispondere a questa domanda. Troppo in ogni caso, per dire che no, dal punto di vista creativo non cambia assolutamente niente dal vivere single al vivere sposata. Forse è perché l'essere sposati e l'essere "sistemati" non li ho mai considerati sinonimi, la mia scrittura continua a nascere da un tumulto di cose non pacificate. O forse perché mio marito non riveste nessuno dei ruoli che dicono siano fondamentali per lo scrittore: non è il lettore implicito, non è il primo che legge i testi e non è editor in nessuno dei sensi possibili. Sono convinta che questa sia una fortuna.

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