giovedì 24 settembre 2009

Liceo Condillac

(Gurrado per Il Foglio)

Ricomincia la scuola e Fandango rimette in circolazione Beata ignoranza, l’instant book che nello scorso autunno Cosimo Argentina dedicò alla “scuola che resiste nell’era Gelmini” – almeno stando al richiamo in bell’evidenza sulla copertina, ché poi all’interno le cose suonano un po’ diverse. Premesso che Argentina non trarrà immortalità letteraria da questo suo pur ragionevole sfogo in guisa di enciclica (ma la trarrà dal suo ultimo romanzo Maschio adulto solitario, scommettiamo? appuntamento fra cent’anni e poi vediamo se non ho ragione), mi preme piuttosto sottolineare che il suo libretto dimostra implicitamente come buona parte dei problemi della scuola italiana dipenda dalla scelta dei nomi degli istituti.

Argentina ha iniziato a insegnare, precario, quando io facevo le elementari e gli alunni protestavano contro “Craxi boia – Falcucci la sua troia”; continua a farlo, sempre da precario, ora che ho appena finito di vedere cortei di universitari pavesi argomentare che “la Gelmini mangia i bambini”. Nei vent’anni intercorsi Argentina ha cambiato venti scuole; le ha rigorosamente elencate in Beata ignoranza e non una, non una mi sembra avere un nome degno. Sono intitolate a scrittori (Primo Levi, Gadda) e poeti (Parini, Carducci); scienziati (Maiorana, Fermi) e inventori (Da Vinci); sacerdoti del XVIII secolo (Cavalleri) e del XX (Milani); partigiane romagnole (Versari), vittime della shoah (Frank), addirittura sediziosi indiani (Gandhi); hanno nomi difficilmente interpretabili (Nuova Europa?) e sigle impossibili a decrittarsi (Isa? Pacle?). Sono dedicate a espressioni geografiche (Parco Nord) ma su venti non una è intitolata a un bravo professore o a un preside onesto. Poi allora è facile lamentarsi che al Ministero dell’Istruzione finisce sempre qualcuno che non ha fatto la gavetta in cattedra. È la stessa nomenclatura degli istituti a fugare la minima eventualità.

Ad esempio mi fa specie che in Italia non ci sia mezzo liceo intitolato a Condillac – almeno a quanto ne so: se qualcuno ci insegna o ci studia, me lo faccia sapere e riceverà la mia eterna gratitudine. Per secoli e secoli di Abbagnani, Étienne Bonnot de Condillac è sempre stato “quello della statua”, ficcato nel minuscolo paragrafo su sensisti e materialisti fianco a fianco col barone d’Holbach nelle cinque pagine sull’Illuminismo francese. Gli alunni preferirebbero magari apprendere che Condillac è stato il maggior innovatore dell’istruzione italiana negli ultimi trecento anni. Nel 1758 viene chiamato alla corte di Parma dal duca Filippo come precettore del duchino Ferdinando: questi ha sette anni ed esprime perplessità nel vedersi piombare addosso il rinomato autore del Trattato sui sistemi, del Trattato sulle sensazioni e del Trattato sugli animali. Nelle sue letterine dell’epoca rivendica veementemente che avrebbe preferito studiare di meno e giocare molto di più.

Invece Condillac si rivela il più grande maestro unico della storia. Man mano che insegna scrive uno sterminato sussidiario, il Cours d’études, a esclusivo uso del suo pupillo: parte dalla grammatica e illustra la formazione dei concetti; dall’osservazione di oggetti comuni trae complesse spiegazioni geometriche; fa leggere all’allievo la Bibbia e Voltaire; gli regala dodici volumi di storia universale che ancora oggi stupiscono per modernità d’approccio, tutti orientati verso l’applicazione delle conoscenze teoriche nella pratica del buongoverno.

Soprattutto, lungi dal lamentarsi della paga o del posto sempre soggetto ai capricci della corte, Condillac preferisce esprimere scetticismo per il proprio ruolo dimostrando di aver capito i mali di oggi già a metà Settecento: “a che servono le scuole, se ci si istruisce davvero solo da adulti?”; “le università sono vecchie e hanno tutti i difetti dell’età”; “si può presumere che i professori rinunceranno a ciò che credono di sapere per iniziare ad apprendere ciò che ignorano? riconosceranno che dalle loro lezioni non si impara un bel niente? no ma, come gli allievi, continueranno ad andare a scuola per eseguire il compitino”; “un professore meritevole presto si disgusta, vedendosi associare a grigi pedanti nel disprezzo generale; e, capendo quanto gli costerebbe riuscire a distinguersi, finisce per ritenerlo imprudente”.

Dieci anni dopo Condillac lascia Parma per l’Académie Française. Il duca Filippo ha diciassette anni, è un altro uomo; sarà un buon governatore e finirà vittima degli eccessi della Rivoluzione Francese e del Napoleonismo. Sicuramente non avrà mai dimenticato le ultime parole del Cours d’études, che oggi nessun professore direbbe forse a un alunno: “Ormai sta a voi, monseigneur, istruirvi da solo. Io vi ho preparato, vi ho abituato. Ora dovete decidere ciò che sarete un giorno; perché la migliore istruzione non la dobbiamo ai nostri precettori ma a noi stessi. Voi forse credete di avere finito; ma sono io, monseigneur, che ho finito: voi dovete ricominciare da capo”.

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