lunedì 12 ottobre 2009

Colpi di scena

(Gurrado per Il Foglio)

Su Marc Augé pesa la condanna di essere citato esclusivamente quale profeta dei non-luoghi, precipuamente aeroporti e centri commerciali. In Nomi, cose, città: viaggio nell’Italia che compra (Fandango) Arnaldo Greco esordisce con la descrizione di Vulcano Buono, centro commerciale a forma di Vesuvio recentemente inaugurato a Nola; Marc Augé compare puntuale alla penultima riga della seconda pagina. Non compare invece un centinaio di pagine dopo, quando si parla della proliferazione di festival culturali, eppure lì me lo sarei aspettato in quanto la principale novità dell’ultima edizione del Festival Filosofia di Modena è stata l’ingresso di Augé nel comitato scientifico al fianco di Remo Bodei e Tullio Gregory. Lì, invece di Augé, Greco cita Michele Serra che già anni fa paventava l’invenzione di vari Festival del Metabolismo, Festival della Meccanica Pesante e Festival della Minchia. Volendo, avrebbe avuto gioco facile nel chiamare in causa Augé per dileggiare l’Italia dei non-festival.
Giustifica
Ne chiedo ragione a Greco stesso, che mi spiega di essere andato al Festival di Modena solo nel 2007, edizione alla quale Augé prese parte ma senza ruoli istituzionali. Più freschi sono i suoi ricordi del Festivaletteratura di Mantova 2008 dal quale ha ricavato la sensazione che “un incontro con Jonathan Safran Foer si riferisce immediatamente a un genere di coinvolgimento molto più superficiale” della lettura dei suoi romanzi. Presumo sia così ma non posso confermarlo: avendo deciso di andare al Festivaletteratura solo e soltanto se invitato a parlare, plausibilmente non ci andrò mai né potrò scoprire se Greco abbia ragione. In compenso detengo un’affidabile infiltrata al Festival di Mantova alla quale giro la domanda per capire se in un’iniziativa così mastodontica il coinvolgimento debba sempre essere inversamente proporzionale alle dimensioni.

La risposta della signorina Giulia mi sorprende. Sostiene che il vero numero chiave non sia quello espresso in decine di migliaia per ratificare l’ammontare del pubblico bensì una cifra più modesta: 600. Si tratta del numero di ragazzi blu, ossia di giovani che collaborano all’organizzazione del Festivaletteratura rendendosi riconoscibili grazie alla maglietta blu. Il Festival è a settembre, loro vengono scelti ad agosto e devono candidarsi in luglio. Dunque già due mesi prima, contate le domande, si riesce a intuire il successo del Festivaletteratura non per estensione ma per peso specifico.

I ragazzi blu vanno a Mantova né per parlare né per ascoltare: sono l’intercapedine fra gli scrittori e il pubblico. Devono accompagnare gli autori stranieri industriandosi con un inglese fluente; spiegare alla folla inferocita che una sala da 300 persone non può contenerne 3000; tenere d’occhio le aree dedicate ai bambini nelle quali è sempre incombente la rissa fra genitori; faticare indifferentemente sotto il caldo cane o la pioggia battente; in più devono astenersi dal perdere la pazienza a costo di diventare dello stesso colore della maglietta. Che le domande crescano ogni anno è stupefacente quasi quanto la recidività di alcuni di loro (la signorina Giulia è blu dal 2003 ma non è ancora esplosa): direi che il loro coinvolgimento è molto più profondo rispetto a quello di chi compra un libro di Safran Foer e se lo fa autografare con dedica.

I volontari sono il criterio infallibile per distinguere un festival ben fatto da un non-festival o, direbbe Serra, da un Festival della Minchia. Mai come in questo caso le dimensioni non contano: ospitare grandi nomi è relativamente facile; riempire le sale o le piazze non è impossibile. Trovare giovanotti pronti a tre o cinque giorni di mal di gambe è più difficile perché ci vogliono motivazioni vere; al contempo è necessario perché senza adeguata manovalanza nessun festival si fa così come nessuna squadra di calcio vincerebbe mai senza l’apporto di oscuri centrocampisti. Tg2 Dossier Storie l’ha intuito e ha dedicato alcune interviste (in onda nella notte di sabato 10) ai giovani del Festival Filosofia di Modena. La particolarità di Modena è che ai consueti collaboratori – maglietta gialla – se ne affiancano altri vestiti da persone normali ai quali sono affidati compiti di maggiore responsabilità come i contatti con la stampa o la presentazione di conferenze. Si tratta di una dozzina di ricercatori sparsi per l’Italia e un po’ di estero che hanno in comune una sola cosa: il dottorato a Modena con Michelina Borsari, storica direttrice scientifica del Festival. Ogni settembre tornano lì, collaborano all’organizzazione e forse costituiscono una piccola comunità filosofica in prospettiva – solo il tempo saprà dirlo.

E ora, colpo di scena: per abbassare la credibilità della trasmissione, Tg2 Dossier Storie ha intervistato anche me che dal 2005 passo tre giorni di settembre a contenere gli slanci delle fan più agé di Umberto Galimberti, a far del mio corpo scudo a James Hillman mentre mille mani si stendono per toccarlo a mo’ di re taumaturgo e poi a infilarmi una cravatta al volo per presentare urbi et orbi filosofi di cui ignoro l’identità fino a mezz’ora prima. Perché lo faccio? Perché ai tempi del mio dottorato Augé tenne un corso a Modena e sarò rimasto suggestionato da questa storia dei non-luoghi.

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