giovedì 8 ottobre 2009

L'inevitabile ripetitività della copula letteraria

(Gurrado per Tempi)

E allora tutti a letto, anche senza Carosello, secondo la nuova tendenza della narrativa italiana. L’altro giorno stavo leggendo La separazione del maschio, ultimo romanzo di Francesco Piccolo, e – nonostante il pregevole nudo in copertina, nonostante l’assicurazione nel risvolto di seconda che il sesso sarebbe risultato “un’ossessione e una consuetudine”, nonostante la definizione in quarta di “romanzo scandaloso e disarmante come una confessione” – miravo soltanto a immergermi nella lucida e sferzante ironia di questo gigantesco Jerome casertano. Così, quando capitavano scene di sesso inevitabili nel resoconto di un uomo che riconquista piena libertà d’alcova dopo essere stato mollato dalla moglie, non ci facevo molto caso e procedevo alla ricerca dell’ironia che affiorava sin dalle prima pagina con la critica dei baristi di oggi che spargono subito il cacao sul cappuccino senza nemmeno chiedere al cliente se lo vuole o no. L’equilibrio ha retto fino a pagina 162. Poi una delle amanti del protagonista gli telefona proponendogli un incontro consolatorio con annessa amica e allora iniziano otto pagine e mezza di acrobazie ritrite e mica trascrivibili.

Ragioniamo. L’idea di due donne che citofonano all’appartamento di un maschio tornato solitario è intrigante abbastanza da lasciar intuire tutto ciò che ne può derivare, tanto più se ne deriva esattamente quello che il maschio si augura nei suoi sogni più sfrenati. In tal caso, poiché il narratore racconterebbe ciò che il lettore già sa, non c’è alcun bisogno di entrare nei dettagli. La sfumatura narrativa, lo spazio bianco che consente di saltare a pie’ pari la scena erotica d’un velo candidissimo adornandola e consentendo di passare direttamente al post coitum non è figlia né della censura né del pudore; serve solo a risparmiare caratteri e non allungare troppo il brodo romanzesco. Se io racconto che il protagonista ebbe fame e si preparò un piatto di spaghetti non ho gran bisogno di entrare in dettagli: prese la pentola, vi immise l’acqua, accese il fuoco, misurò il sale…

Senza contare che la scena erotica a tre, non lasciando spazio all’immaginazione, impedisce tautologicamente al lettore di immaginarsi al posto del protagonista. Se si fosse fermata alle nove di sera, quando l’io narrante invita amante e amica a cena da lui, per poi ricominciare alle sette meno un quarto del mattino, il lettore avrebbe avuto a disposizione circa dieci ore nelle quali figurarsi qualsiasi porcheria lo aggradasse secondo il gusto individuale. Venendo posto di fronte al fatto compiuto, invece, deve limitarsi ad allinearsi al gusto che l’autore presta al protagonista.

Il problema è che per descrivere il sesso sono necessari due requisiti uguali e contrari. Uno è il coraggio di dare a ogni organo o atto il nome giusto al momento giusto – rifugiandosi in perifrasi più o meno pudiche e più o meno romantiche si consegue lo stesso effetto para-burocratico di quando si chiamano i piedi “estremità inferiori” o le mutande “effetti personali”. L’altro è la capacità di variare e modulare la terminologia a seconda dell’esigenza così da superare il principale ostacolo tecnico della narrativa erotica: il sesso è ripetitivo, ovvero è sempre scomponibile e riducibile allo stesso nucleo più o meno noto a tutti, esattamente come dalla Champions League al cortile sotto casa ogni partita di calcio si basa sull’assunto universale che chi fa più goal vince.

Se uno legge i grandi pornografi francesi della storia – Sade e Restif de la Bretonne nel Settecento, Pierre Louÿs a fine Ottocento, Apollinaire a inizio Novecento, Houellebecq oggigiorno – nota subito che il passaggio alla scena esplicitamente erotica non comporta nessuno stacco né stilistico né ritmico rispetto al resto della narrazione: questa continua a fluire come un tutto indistinto presentando l’erotismo come meccanismo necessario nell’economia della storia. Così il sesso viene elevato ad arte.

In Italia invece le cose non filano altrettanto lisce, nonostante la proliferazione di scene esplicite in romanzi che tutto vogliono essere meno che erotici. In Non avevo capito niente di Diego De Silva, un mediocre avvocato Malinconico fin dal cognome si ringalluzzisce non grazie alla travolgente passione per la più bella dell’ufficio, che sarebbe normale, ma alla travolgente passione della più bella dell’ufficio per lui. E vanno a letto. In Prima di sparire, Mauro Covacich prende a raccontare i fatti propri compresa la dirompente passione per una ragazzetta romana. E vanno a letto. In Italia De Profundis, Giuseppe Genna viene contattato su internet da una drag queen milanese, che dopo aver simulato una insana passione per Genna medesimo gli dà convegno accogliendolo con due colleghe piuttosto aggressive. E vanno a letto tutti e quattro. Potrei citarne molte altre ma si tratta di scene di sesso noiose anche solo a rammentarle fugacemente e nessuna di loro merita di essere ricordata come invece una pagina qualsiasi del peggio di Sade o di Apollinaire.

Dovessi indicare un responsabile, però, punterei il dito contro Sandro Veronesi. Non parlo di responsabilità cronologica, ché certo non è stato il primo, ma di responsabilità stilistica: la scena di trasporto e sodomia fra il protagonista di Caos Calmo e la sconosciuta borghese cui aveva salvato la vita è il vertice (basso) della pornografia letteraria d’Italia, quella in cui si copula a vista ma solo per offrire maggior introspezione psicologica. È come quelle attrici che si spogliano volentieri ma solo per un nudo artistico. Poi la scena è stata trasposta nella versione cinematografica del libro e da allora pare che ogni autore italiano ficchi nel proprio romanzo cinque o dieci pagine di sesso esplicito – però sesso intellettuale, rivelatore, sesso sterilizzato perché non fine a sé stesso – nella speranza che ne venga tratto un film in cui si veda il culo di Nanni Moretti. Hanno lo stesso effetto dello sbuffo non richiesto di cacao sul cappuccino.

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