giovedì 26 novembre 2009

Destra divina che è dentro di noi

Vabbe' che in Italia saranno almeno le cinque del pomeriggio, ma se riuscite a fare un salto in edicola sul Foglio di oggi spiego con dovizia di particolari qual è l'unico libro possibile e necessario a usarsi come guida per scovare la fidanzata ideale: il nuovissimo Manifesto della Destra Divina di Camillo Langone (edizioni Vallecchi). Il sottotitolo, tanto per intenderci, è "difendi, conserva, prega!". Su Langone, "maschio, cattolico, italiano, erotomane, papista" e (ne sono orgoglioso) pure amico consiglio senz'altro il ritratto dettagliato fatto qualche giorno fa da Marina Valensise.

lunedì 23 novembre 2009

Banana football league

Nomina sunt consequentia rerum ragion per cui io ci penserei non due ma trecento volte prima di cambiare, come sembra, il nome alla Serie B. Si vuole invece assecondare la diffusa tendenza all'eliminazione del concetto subalterno di serie cadetta - questo accade ovunque: in Inghilterra la prima serie si chiama "Premier league" e la seconda "Championship", ossia "campionato" puro e semplice, forse a sottintendere che le altre serie sono faccende diverse. 

Elio (e le Storie Tese) in tempi non sospetti metteva tale intrinseca gerarchia in chiaro cantando che "la Serie A si basa sul concetto di campione che gioca in Serie A" mentre "la Serie B si basa sul concetto di piede a banana, la squadra retrocede e il  mister silurato si ritira e fa una fine tipo Agroppi".

Convengo che un nome del genere sia troppo lungo - da "conetto" ad "Agroppi" vanno via trentacinque sillabe, a occhio. Il calcio moderno vuole brand fulminei il cui nome, possibilmente in ostrogoto, resti infisso nell'orecchio, nell'occhio e in ogni altro organo senziente del fruitore. (Io, da parte mia, quando sento definire "fruitore" la persona che segue o dovrebbe seguire il calcio vengo colto dal desiderio di tirare pedate ad alzo zero; e considerate che di questa stagione indosso anfibi che pesano più di me). Per rinominare la Serie B l'unica soluzione ragionevole al momento sarebbe qualcosa come Banana football league, come suggeriva ieri un amico. Tanto più che i geniacci dell'ex Serie C hanno rovinato la festa ribattezzando la propria serie "Lega Pro", che non significa un accidente, dividendola in "prima divisione" e "seconda divisione". Ragioniamo: se la  A, che è la prima serie, resta Serie A e C1 e C2, che sono la terza e la quarta serie, diventano "prima" e "seconda divisione", la B che è la seconda serie cosa dovrebbe essere? "Quasi divisione"? "Mezza divisione"?

Poi quando fra cinque anni i campionati italiani si chiameranno tutti con nomi spastici voglio vedervi a spiegare a vostro figlio il meccanismo ascendente e soprattutto discendente di promozioni e retrocessioni, che l'ordine alfabetico (A, B, C1, C2, D, Eccellenza) rendeva tanto trasparente che perfino Elio (sempre con le Storie Tese) diciassette anni fa poteva cantare: "Da Serie A - a Serie B - a Serie C1 - a Serie C2 - a Serie C3, che non c'è - a Serie piede a banana - a Serie subbuteo - a Serie l'importante è partecipare - a Saint Tropez".

venerdì 20 novembre 2009

Una soluzione per tutto

1. L'Italia è in mano a gente misera, come dimostra la carbonizzazione della trans Brenda. Fermo restando che credevo che i roghi delle streghe fossero finiti duecento anni fa, sono sicuro che ci sarà da un lato gente che accuserà i democratici di eliminare fisicamente gli ostacoli politici e dall'altro gente che penserà che in fin dei conti una trans è una zoccola e quindi se non se l'è meritata se l'è quanto meno cercata. Poiché purtroppo è impossibile richiamare in vita i morti e poiché, ovunque sia la responsabilità, è arduo vivere col sospetto di avere un cadavere sulla coscienza, propongo questa soluzione pratica: Marrazzo dia cinquemila euri all'anno a delle trans che vivono magari in indigenza o sotto sfruttamento senza chiedere nulla in cambio.

2. L'Europa è in mano a gente misera, come dimostrano le nomine pseudo-ministeriali di ieri. Preferire Rompuy a Blair, e a D'Alema una signora inglese random, significa privilegiare scientemente e sistematicamente la mediocrità pur di non far torto a nessuno. Poiché l'Europa non è un'istituzione democratica e quindi non garantisce la formazione di un governo a seguito del voto, propongo l'unica soluzione pratica che sia in mano a palazzo Chigi: Berlusconi riconosca la competenza istituzionale e la bravura politica di D'Alema offrendogli un posto nel suo governo, come ha fatto Sarkozy con Kouchner. Eventualmente poi può cedere Fini al Pd, sarebbe un regolare scambio di ostaggi.

3. Il mondo è in mano a gente misera, come dimostra il Mondiale che essendo un gioco non dovrebbe annegare in codicilli e contrappesi. Ripetere Francia-Irlanda perché Henry ha giocato a pallamano significa mettere sub judice tutti gli errori arbitrali di ieri e di oggi: dobbiamo ripetere pure Corea-Italia del 2002? Milan-Messina del 1990? Roma-Juve del 1982? Vedo qualche problema a rifare Cile-Italia del 1962, il replay potrebbe non essere altamente spettacolare. Senza considerare che ripetere la partita la settimana prossima non implica che si qualifichi l'Irlanda, come invece stava avvenendo mercoledì. Propongo dunque una soluzione pratica che coinvolge lo spareggio di qualificazione fra Egitto e Algeria: visto che gli egiziani hanno preso a sassate il pullman degli avversari e visto che gli algerini hanno festeggiato la vittoria lasciando per strada complessivi 14 morti, direi che al posto loro sarebbe bene iscrivere ai Mondiali l'Irlanda e aspettare che prima di prendere parte al consesso pedatorio e al gioco del mondo i maghrebini dimostrino di saper comportarsi da cristiani.

Il lato giusto del Rio de la Plata

(Gurrado per Quasi Rete)

C’è dunque quest’usanza meridionale di approfittare dell’onomastico dei figli per far visita ai genitori. Il 13 giugno 1990 avevo dieci anni e toccava a me, solo che la lenta sfilza pomeridiana di amici di famiglia con profferte di regali e dolcetti non riusciva a distogliermi dall’intento di restare barricato in cucina. Non era una protesta, non l’avevo su né coi miei né coi loro amici né tampoco con Sant’Antonio; è che era pieno mondiale d’Italia e c’era Uruguay-Spagna, prima partita del gruppo E: io mi sentivo parte in causa.

C’è anche questa tendenza tutta italiana a cercare corrispondenze e quasi parentele anche dove non si dovrebbe. Il Sudamerica, per esempio, ha una mappatura psicologica che corrisponde alla coscienza europea: gli argentini sono i nostri cugini, incazzosi per strada, raffazzonati sul lavoro e repentinamente poetici, poi lacrimogeni, poi entusiasti senza ragionevole causa scatenante. Non per niente Maradona ha fatto quel che ha fatto a Napoli, mica a San Pietroburgo. I brasiliani mi hanno sempre dato l’idea dei francesi, schiavi della propria grandeur, morbosi nella ricerca dell’eccesso, sfregiati dall’allegria del naufrago. Gli inglesi – be’, degli inglesi valga il giudizio espresso da Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa: “Gli uomini delle mie isole sono tutti un po’ matti”. Gli inglesi del Sudamerica sono gli uruguagi.

C’è infatti questa parola figlia di Gianni Brera che stenta a entrare nel lessico comune così come stenta a uscire da quello sportivo. Non vi so dire il fascino dell’esotica y che diventa g dolce ammarando nella fonetica patria dell’aggettivo inconsueto. Uruguaiani, o peggio ancora uruguayani, mi fa lo stesso effetto di quelli che dicono giunior, di quelli che vestono naik, di quelli che pagano in iuro. Se un giorno potessi realizzare un mio sogno bambinesco, metterei di fronte due squadre immaginarie: da un lato tutti gli uruguagi, che questo computer codino continua a sottolineare in rosso, dall’altro tutti gli uruguaiani. Secondo voi chi vincerebbe?

C’è anche la storia che ha detto la sua in maniera insindacabile. Ogni quattro anni cambiano gli ultimi campioni del mondo, ma dal 1930 i primi sono sempre gli stessi, mutande nere e camicia celeste. Padroni di casa della prima edizione, gli uruguagi fecero disputare tutte le partite a Montevideo – non sorprende, considerato che il loro esotico campionato ha sempre consentito l’iscrizione alle sole squadre della capitale ragion per cui ogni partita è derby. La finale fu nello Stadio Centenario, costruito appositamente per i Mondiali e per celebrare il secolo trascorso non dall’indipendenza (1825) ma dalla costituzione (1830). Fu 4-2 sull’Argentina fu anche l’unica finale, che io sappia, in cui abbia fatto goal un handicappato: Hector Castro, falegname di nascita, aveva dimenticato la mano destra sotto una sega elettrica e perciò era detto “el manco”.

C’è perfino una parola che non è una parola vera e propria, essendo stata composta da un complemento di stato in luogo e un suffisso di disperazione ed esagerazione. Maracanazo in Italiano potrebbe tradursi maracanazzo, tanto per rendere l’idea dell’atmosfera fra i centomila, centoventimila, chissà forse duecentomila tifosi brasiliani accalcati sugli spalti del nuovo stadio di Rio de Janeiro per la finale dei Mondiali 1950. Non è una finale stricto sensu visto che per aumentare partite e incassi (e proteggere il Brasile dalle già allora tradizionali inciampate nell’eliminazione diretta) era stato escogitato un girone conclusivo con quattro squadre. Alla vigilia di Brasile-Uruguay la classifica era tale che ai padroni di casa, in maglia candida, bastava pareggiare. Il Brasile s’era fatto strada fino a lì a suon di goleade e sull’1-0 si proclama campione, ignorando di non star fronteggiando dei mediocri uruguayani ma dei sublimi uruguagi. Il capitano della celeste armata era Obdulio Varela, uno che con un nome del genere meritava d’essere inventato da García Marquez; dopo il vantaggio brasiliano aveva avuto l’ottima pensata di raccogliere il pallone dal fondo del sacco e avanzare tenendolo in mano verso il centrocampo, a passi tardi e lenti come il vecchierel canuto e bianco, tanto che alla moltitudine assiepata sugli spalti (trecentomila? mezzo milione?) venne l’angina alla sola idea che stesse per protestare per un fuorigioco, un fallo di mano, qualsiasi cosa potesse far tornare lo 0-0 iniziale. Invece Obdulio Varela vendeva saggezza. Rimise la palla a centrocampo e l’Uruguay vinse 1-2 con la premiata ditta Schiaffino & Ghiggia.

C’è stato poi Mazurkiewicz, il portiere dal nome ostrogoto che nel ’70 venne dribblato da Pelé senza che nessuno dei due toccasse palla; c’è stato Ruben Sosa, c’è stato Recoba, c’è stato anche Zalayeta. C’era soprattutto questo spareggio contro la Costarica, che da ogni parte si insiste a chiamare “il Costarica” come quelli che vogliono fare gli intellettuali e dicono “il Genesi” (ma poi, fra parentesi, direbbero mai “il Ricerca del tempo perduto”? direbbero mai “il Costa d’Avorio”?). Quattro anni fa gli uruguagi per qualificarsi erano stati sottoposti a simili forche caudine e avevano perduto contro – non ricordo bene se Trinidad & Tobago o Mogol & Battisti o Salmoiraghi & Viganò. C’era questo spareggio contro la Costa & Rica, mercoledì, e altri quattro anni senza vedere camicie celesti e mutande nere sarebbero stati insostenibili come la replica della Corazzata Potemkin. Però alla fine l’Uruguay ha vinto, il Mondiale è salvo, poesia e storia pure.

giovedì 19 novembre 2009

Il Travaglio quotidiano

Beati voi che è giovedì e state in Italia, così stasera potete vedere Annozero e pascervi della ridanciana introduzione dell'imitatore di Travaglio. Questi è meglio di Crozza. Riproduce alla perfezione tutte le smorfiette del giornalista che piglia un libro a caso, legge che un assessore è stato fotografato alla messa di battesimo del figlio di un cugino del vicino di casa di un indagato per associazione mafiosa e conclude che tutti quelli che non chiedono l'impiccagione dell'assessore hanno personalmente affondato la nave dei veleni nel mare di Casoria. Per conferire il crisma dell'infallibilità a tali singolari teorie, l'imitatore di Travaglio agita il volume in faccia alla telecamera e bercia: "Questo l'ha scritto Saviano", un po' come mi hanno riferito che Castellitto urlasse "Questa è la Mazzantini!" dal palco del concerto del primo maggio. Similia cum similibus, diceva la mia professoressa di Latino quando non parlava in dialetto; ma anche similia cun simillimis, visto che la gran specialità dell'imitatore di Travaglio è avallare le proprie ardite ricostruzioni citando quale fonte principale Il fatto quotidiano. Nella seconda metà del Seicento un teologo protestante, Jacques Abbadie, sosteneva che la veridicità della pagina biblica sul passaggio del Mar Rosso fosse certificata dall'assenza di testimonianze contrarie degli israeliti che seguivano Mosè. Siamo lì, il metodo è lo stesso.

mercoledì 18 novembre 2009

Chiacchiere vacanti: Cosimo Argentina


(Gurrado per Books Brothers)


Gurrado: Cosimo, ho appena finito di parlare con Michela Murgia la quale mi diceva che alla fin fine per una scrittrice non cambia gran che fra essere single o sposata. Per ribadire il concetto s'è sposata e ha continuato a scrivere come se niente fosse. Ora, l'altro giorno stavo leggendo Beata ignoranza (con un anno di ritardo sull'uscita, ma che cos'è in confronto all'eternità?) e ho notato che tu invece insisti molto sul tuo essere sposato e padre di due figli. Ovviamente lì stavi facendo i conti in tasca all'Argentina professore e non allo scrittore, ma ogni tanto non pensi che la tua produzione avrebbe potuto essere diversa se sfortunatamente non ti fossi sposato? (Dico sfortunatamente perché conosco la tua famiglia). Fai conto che la mia reazione più consueta a chi mi sottopone un elogio della prosa di Philip Roth è: "Bella forza, vive solo".


Argentina: Visto che citi Roth rilancio con Hrabal che diceva che nella sua vita i figli e i libri erano le priorità assolute. Lui aveva realizzato una delle priorità. La domanda però immagino vada ben oltre questa considerazione. Ogni scrittore ha bisogno di altro altrimenti il suo cervello va in pappa. Chi studia volente o nolente Voltaire, chi scopa un numero impressionante di vergini, chi gioca ai cavalli, chi tifa Milan (che sofferenza quest’anno) e chi ha nella famiglia un (il) momento in cui la scrittura non esiste. L’unico momento della mia vita in cui non penso al romanzo a cui sto lavorando è quando Milena mi salta in braccio o Francesco mi chiede un mio commento all’ultimo Batman. I figli in pratica hanno segnato la mia scrittura in senso positivo. Mi hanno tolto spazio, è vero, ma mi hanno permesso di vivere oltre la pagina. Io sarei diventato un recluso del pc. Mi alzo la mattina e sino alla sera, lavoro escluso, me ne starei davanti al computer a scrivere, rileggere, sistemare, un blog qua, un commento là, una virgola, un punto esclamativo. Con due figli di 6 e 2 anni non è possibile. Tu vivi e poi scrivi. Lo scrittore di professione non lo sopporto. Non mi piace. Non mi sorprende, non mi emoziona. Il pazzo che verga i suoi fogli nel disordine alla Dickens, uno alla Joyce che ubriaco canta in cucina e nel frattempo pensa all’eternità, questo mi piace. Francesco e Milena inoltre creano casino in casa sicché io non posso prendermi sul serio e pensare per un solo attimo che sono uno scrittore. Ho troppo rispetto e soggezione per la parola scrittore per incollarmela addosso. Ah, per concludere, non uso i figli a scopi letterari. Una cosa che non sopporto è il fatto che soprattutto le nostre scrittrici, una volta superato il parto, debbano sentirsi in obbligo di raccontarci che cosa dolorosa, fantastica e terribile sia la maternità. Non mi interessa.


G: Premetto che non conosco nessuno scrittore che tifi Milan, studi Voltaire e sia al contempo uno spulzellatore seriale. In compenso mi vengono in mente parecchie scrittrici - solo che sono stanco e non ricordo i nomi, tanto più che tendenzialmente scrivono tutte uguale - che hanno una spasmodica attenzione per la corporeità, prima ancora che per maternità e gravidanza. Valeria Parrella emerge come esempio positivo, Lo Spazio Bianco mi è parso un libro riuscito anche se forse meno ambizioso di quanto avrebbe potuto. Seguono infinite epigoni, anche giovani e impubblicate, che rientrano nel solito cliché di scrittrice tanto caruccia, linda e pinta, che punta a sconvolgere con un tema scioccante (il parto in diretta, la deformità grottesca, la violenza, l'incesto, il tifo per l'Ambrosiana Inter, etc.). Specifico: non con un romanzo che tocca questi temi scioccanti, ma con un romanzo che si regge su di loro come uniche sue ragion d'essere. Un tempo io facevo il liceo classico e sapevo mille cose, ormai tutte inevitabilmente dimenticate grazie alla progressiva cultura accademica; un tizio che non ricordo, per offenderne un altro che ricordo ancor meno, se ne uscì in un suo scritto greco definendolo omphalotemnes, tagliatore di ombelichi. Voleva sottolineare il fatto che lui era scrittore per formazione ed estrazione, mentre il polemizzato di notte scriveva ma di giorno faceva l'ostetrico. Ecco, queste signore e signorine di oggi mi sembrano altrettante tagliatrici di ombelichi, sovente del proprio. Dici che sono sessista?


A: No, Antonio, non è una questione di sessismo. Noi li vogliamo bravi. Stanco delle solite discussioni tra scrittori di destra e di sinistra, femmine maschi e omosessuali – anche se questi ultimi detengono una cospicua fetta del mondo editoriale – mancini o destrorsi. Noi li vogliamo bravi. Uno legge un libro e il fatto di aver dedicato mettiamo 5 ore a quella lettura deve avere un senso. D’accordo con te, Antonio, sul fatto che ci sono libri che si appoggiano a un tema, ma in realtà sono piscio di gatto. La Parrella… io è meglio che non parlo ché mi ha ciulato un premio sotto gli occhi; io partecipavo con MAS e lei con Lo spazio bianco e al primo andavano soldi e una Montblanc extralusso. Soffro ancora per la Montblanc. In sintesi, al di là dei simpatizzanti dell’Ambrosiana – nome appartenuto anche alla madre di tutte le banche fallite – per gli altri vogliamo le carte (per gli interisti vogliamo l’iscrizione al campionato del Ghana). Se sono bravi va bene tutto, se sono scarsi che non se ne parli più.


G: I premi, già - io non ho sviluppato un pensiero preciso al riguardo per due motivi, ossia che non ho mai organizzato un premio e che non ho nemmeno mai partecipato a uno. O meglio, ho partecipato solo da manoscritto, e vincere è stata la maniera (l'unica temo) di farmi pubblicare. Personalmente qualcosa mi sfugge nel meccanismo e nel senso dell'assegnazione di premi a libri editi. Insomma, il premio per un libro dovrebbe consistere nella tiratura, nella gloria letteraria e no, negli eventuali passaggi in tv o sui manuali per licei, nel fatto che uno sconosciuto si ricordi all'improvviso una tua frase che ha letto anni prima. E i criteri di assegnazione mi danno lo stesso senso di smarrimento di fronte alla profusione di numeretti in una gara di tuffi. Forse bisognerebbe limitarsi a premi con criteri oggettivi - il libro più lungo, il libro più corto, il libro stampato più largo, il libro più venduto e il libro più prestato dalle biblioteche. Oppure trasformare il premio in un win-for-life per esordienti, in cui chi dimostra entro una certa (giovane) età di avere stoffa per scrivere un buon romanzo ottiene uno stipendio di mille euri mensili per un anno, così può non lavorare e concentrarsi sulla scrittura giorno dopo giorno. Se gli si desse di più non scriverebbe affatto. E se non scrivesse bisognerebbe costringerlo a restituire i dodicimila euri sull'unghia. Ecco, l'idea me la sto facendo qui in diretta ed è che forse più che agli scrittori i premi si danno ai cavalli. Detto questo, se da grande ne vincerò qualcuno accetterò con convinzione soldi e Montblanc.


A: Ahi ahi ahi… questione premi letterari. Tu, amico mio, nel tuo candore fai considerazioni ovvie, letterariamente scontate. Ma i premi muovono un mondo di mezzecartucce che neanche ti immagini. Ci si premia a vicenda. Ci sono intellettuali che vivono (e campano) girando da un premio all’altro quali giurati. Alcuni premiano per essere a loro volta premiati. Premiare vuol dire alberghi di lusso, sponsor, rappresentanti comunali che non capendo un cazzo di letteratura danno carta bianca ai soliti noti per organizzare, mangiare e omaggiare la provincia, regione o comune attraverso una manifestazione di cui si poteva fare tranquillamente a meno. Ma la cosa importante l’ha detta l’altra sera Andrea De Carlo all’Era glaciale, ovvero quando gli è stato chiesto perché si sia dimesso da giurato dello Strega lui ha risposto perché la gente compra i libri pensando che un premio ne certifichi la qualità. E invece siccome i premi sono truccati – TUTTI, aggiungo io – io come intellettuale non me la sento di partecipare alla truffa. Ora, si può apprezzare De Carlo o non apprezzarlo, considerarlo un intellettuale o meno. Ma le sue parole restano. I premi sono truffe. Un buon libro ha le stesse possibilità di vincere di una cagata mostruosa. Sono altri i fattori che ne determinano la vittoria. Ci sono i figli e i figliocci; ci sono ordini di scuderia; ci sono gli acquisti ovvero i voti comprati, ci sono le vendette, le scopate, le leccate, i clan eccetera eccetera. Ho conosciuto molti giurati e un paio di volte anch’io mi sono cimentato in quest’orribile farsa. Lasciamo perdere, dunque.


G: Proprio ieri in Inghilterra è stato assegnato il Man Booker Prize. Ha vinto un onesto romanzo storico, di cui ho letto solo un ammontare di recensioni superiore al numero complessivo di pagine del volume. Mi hanno scioccato le motivazioni della giuria, che intendevano esaltare il libro enumerandone caratteristiche che però non lo distinguevano da qualsiasi altro romanzo medio. L'idea che m'è venuta - e che potrebbe essere confermata solo e se leggerò il libro - è che ormai l'editoria tenda a premiare non la differenza ma la copia conforme, e che come in Orwell (citazione abusata) il privilegio arrida a chi è più uguale degli altri.


A: Ma resta il fatto che non c’è errore peggiore che scrivere per l’editoria. È l’editoria che deve venirti dietro e non il contrario. Questa mia presunzione deriva dalla considerazione che non campo dei miei libri e perciò sono un animale libero, allo stato brado. Non ho scadenze per le consegne, non ho avuto un agente per dieci anni, non ho temi argentiniani e come sorgono li abbatto io per primo. Non utilizzo neanche l’indotto del mondo della scrittura tipo corsi di scrittura (anzi, ne ho tenuto uno per pochi intimi, carino, ma non più riproposto). Non vinco premi e non faccio il giurato a premi letterari. Tutto questo impoverisce le mie tasche e mi preclude la possibilità di arrivare al grande pubblico dei lettori che comprano solo roba sponsorizzata in bella mostra alla GS, ma mi permette di scrivere al meglio delle mie possibilità. A volte per magia accade che mi riesca una pagina, a volte no. Ma quando ho pubblicato Il cadetto si trattò del primo romanzo sull’accademia di Modena scritto dall’interno. Quando fu la volta di Cuore di cuoio si disse che per la prima volta si parlava di Taranto in tarantino ma fuori da Taranto. E così via. Alla fine vendo poco, ma che importa? Non mi pubblica Einaudi, ma resistiamo, Antonio, resistiamo e quando le cose cambieranno non sarò così ipocrita da fingere di soffrire per questo, ma se mai accadrà avrò più di 46 anni e le spalle abbastanza larghe da capire come funziona per cui non c’è nessun motivo per montarsi la testa. A volte penso che i vari Giordano (che per me resta il centravanti della Lazio e in subordine il grande nolano) Saviano e Tamaro siano degli sfortunati. Il successo può essere ingestibile – vedi Ronaldinho – e come scrittore rischi di essere finito se le cose ti vanno fin troppo bene.


G: E se vinci il Nobel sei rovinato? Con tempismo cortesemente calibrato sulla nostra conversazione l'Accademia di Svezia ha assegnato il premio in tempo reale a tale Müller (purtroppo il bisonte brasileiro che fece retrocedere il Torino nell'89 né il ballerino di seconda fila che pestava i piedi a Beccalossi) la quale ha il principale merito di essere stata perseguitata da Ceaucescu. Non l'ho mai letta (e se non l'ho mai letta ci sarà un motivo) ma istintivamente credo che una scrittrice che ha scritto un libro sulle prugne debba necessariamente fare un po' cacare. Ma ormai per l'assegnazione dei Nobel non ci sono più motivazioni ma solo moventi, idem valga per quello per la pace a quel - vabbe', meglio che sto zitto.


A: Fino a oggi conoscevo giusto l’Herta Berlino che avevamo incontrato in Coppa dei Campioni (champions league? orrore!) e il ricordo non è manco tutto questo granché. Certo che vincere il Nobel… be’, lasciamo perdere. Temo che i ragazzi di Stoccolma si siano trasformati in una banda di burloni che ci gode un sacco a scioccare l’intellighenzia mondiale. Dopo Fo tutto è possibile, anche un Barack Hussein Obama che manda affanculo il Dalai Lama e che promette grappoli di bombe a grappolo, milioni di frammenti di bombe a frammentazione e mega accensioni di bombe a incandescenza ai persiani e a chi per loro e poi intasca l’assegno north pole (magari è un risarcimento per lo smacco olimpico di Lula). Ma tornando al Nobel per la letteratura io credo fermamente che i premi siano uno spezza gambe. Il narratore veramente libero per paradosso è quello che viene scoperto dopo morto. Ma al tempo stesso lo scrittore è un individualista ed egocentrico perciò vincere il premio Mungivacca o vincere il Nobel nobilita. Per quanto mi riguarda mi piacerebbe avere il palmares del Milan, ma al momento ho quello del Taranto Calcio, cioè zero, qualche retrocessione e un paio di promozioni decenti oltre una coppa Italia lega dilettanti. Robetta. Qui aspettiamo lo scudetto se non la coppa Intercontinentale (Toyota cup? Orrore!).


G: Su Dario Fo ho un'idea diversa. Penso che sia stato pienamente legittimo dargli il Nobel per la letteratura - intendo che sia stata pienamente legittima l'idea sottesa, ossia che Dario Fo sia letteratura - perché è possibile trovare le sue radici nei manuali di letteratura. Mi spiego. Quando ha vinto io ero in seconda liceo, ossia al quarto anno, e un mese prima avevamo studiato la Commedia dell'Arte con le sue formule fisse che però variavano di rappresentazione in rappresentazione. Se questo tipo di approccio testuale (ché poi di quello si trattava, di un approccio al testo finalizzato a negarne la fissità immortale) era ritenuto letteratura quando si trattava del 1648, altrettanto bisognava ritenerlo letteratura nel 1997, quindi nel caso passibile di Nobel. Io penso che ci vorrebbe un ritorno ai manuali, alle periodizzazioni, alle catalogazioni; ma anche alla scoperta dei contenuti secondari. I professori di Italiano devono rendersi conto che il manuale di letteratura può essere per gli alunni che vogliono scrivere la prima bussola per orientarsi nello sconfortante delirio di onnipotenza che prende di fronte a ogni foglio bianco, la prima miniera in cui scoprire le sperimentazioni più o meno riuscite (solo i manuali di letteratura si ricordano di Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, dadaista del secolo XVI), la linea di galleggiamento da tener presente e l'orizzonte al quale tornare periodicamente se e quando si inizia ascrivere sul serio e non si fa più il liceo. Forse tu che insegni alle superiori, e non ti basi su un vago nostalgico irrimediabile ricordo di dieci anni fa, lo saprai meglio di me.


A: Non discuto il passo letterario di Dario Fo, ma dico che quando leggo Ibsen riesco ad apprezzarne un terzo della forza che si scatena sul palcoscenico. Le opere realizzate per essere rappresentate sono altro rispetto alle opere di letteratura scritte per essere lette e basta. Una commedia letta è di per sé un’opera amputata. Quindi all’innegabile valore letterario secondo me non corrisponde addirittura un valore da Nobel (tra l’altro mi viene in mente un unico romanzo di Fo, Il paese dei mezaràt o qualcosa del genere e devo dire che la forza narrativa era a mio avviso scadente). È come prendere il grande Milan dei tre olandesi e iscriverlo a un torneo di volley; rimane una grande squadra ma quella non è la sua collocazione. Come quando Michael Jordan decise di passare al baseball. Figuraccia. Quanto alla scuola i miei colleghi di italiano battono sentieri consueti. La scuola, evitando l’aggiornamento, ti porta a battere terreni noti. E per essere convincente invece dovresti investire i ragazzi di un entusiasmo che non puoi avere se ti sei andato a impaludare. La mappatura dell’universo letterario passa inoltre anche dagli ultimi trent’anni di scrittura e quella è zona franca dove nessuno se non gli appassionati può muoversi con disinvoltura. In più ci sono dei limiti come dire socio-strutturali. Un mio amico un anno decise di leggere in classe oltre all’Iliade alcuni scrittori dell’ultimo decennio non disdegnando l’Aldo Nove di Puerto Plata Market e Il senso della frase di Pinketts. Be’, in un collegio docenti è stato messo in croce alla Fantozzi e accusato di voler fare a tutti i costi l’alternativo. A scuola dunque se vuoi remar tranquillo è bene che tu faccia Fogazzaro e che dica che Guareschi è stato uno sceneggiatore di Gino Cervi. Quel Gino Cervi lì, per capirci.


G: Ognuno ha il Gino Cervi che si merita (questa mi sa che la capiranno in pochi, forse solo io e te). Ma più che a Michael Jordan che si mette a giocare a baseball o a golf o a spaccaquindici io mi rassomiglio a un nuotatore, di quelli controvoglia però, non a un fulmine come la Pellegrini che camperebbe sott'acqua ma più simile alla Filippi che sembra una pesciolona smaniosa di aria, di mettere la testa sotto per riemergere quanto prima e roteare la mano vicino all'orecchio. Quando ci siamo tuffati avevamo in mente un solo libro, da leggere o da scrivere che fosse; poi il primo libro letto ci ha istigato alla curiosità verso un altro libro da leggere, e il primo libro scritto ci ha fatto venire in mente che potevamo scriverne meglio un altro. A ogni libro s'è aggiunto un libro e ancor oggi, quando magari crediamo di star finendo, di star chiudendo il cerchio, passiamo davanti a una libreria e notiamo un classico che ci vergogniamo di non aver letto, o ci arriva da recensire un pacchettino con una novità che c'interessa, o nei momenti meno opportuni ci viene da mollare tutto perché siamo stati folgorati dall'idea per un nuovo romanzo che sarà meglio di tutti quelli che abbiamo scritto e perfino di quelli che non abbiamo scritto. È come una piscina in cui, a ogni ultima virata, qualcuno aggiunga altri cinquanta metri alla faccia nostra - finché non sappiamo più come respirare.


A: Il grande Nietzsche anelava a un mondo senza lettori. Mandava affanculo tutti i lettori (quindi anche te e me) e mostrava la vera forza del pensiero e della scrittura: non avere un interlocutore funzionale. Ognuno di noi scrive senza dubbio per se stesso, caro Antonio. Lo facciamo tutti chi più chi meno consapevolmente. Altrimenti la lettura sarebbe esaustiva sull’argomento. Ognuno nel leggere Memorie dal sottosuolo… lasciateci soli, senza i libri, e subito ci confonderemo, ci smarriremo eccetera eccetera non può non pensare “cazzo, questo è mio padre e io devo rendergli un centesimo di quello che lui ha dato a me, ORA”. Ma al di là di questi rari casi di pecorinesca sudditanza letteraria per il resto è… scrittura per tenere a bada i propri demoni, per salvarsi, per dare un senso a tutto, per non svegliarsi e capire che tutto è iniziato con un’anomalia interiore, tutto è iniziato da un cortocircuito che né tu né nessun altro potrà mai sanare. Tu ad esempio ricordi il momento in cui per la prima volta hai preso in mano la penna e hai pensato eccomi, ora scrivo una storia? No, immagino di no. Io almeno non lo ricordo. Ma c’è qualcosa dentro di me che non può non saperlo e non sia mai detto che questa creatura si azzardi a mettere fuori la testa. Per me sarebbe la fine. Io mi sento un cacciatore di taglie o meglio un tagliatore di teste. Scrivo e decapito per contratto. Il contratto l’ho firmato in bella grafia gotica un giorno, forse durante un sabba, ma non me lo ricordo più. La mia mediocrità umana era testimone mentre contraevo l’obbligo e il mio presunto talento avallava il dado accuratamente tratto. A volte mi verrebbe voglia di strappare i cavi del pc e scaraventare tutto dal terzo piano e vedere se funziona lo stesso, ma mi rendo conto che i condomini mi tratterebbero come Gigi Riva quando rifiutò la Juventus o come Ezio Vendrame quando si scopò la ragazza del suo allenatore Vinicio nei bagni del Sant’Elia. Però ti giuro che il magma c’è tutto e mi rendo anche conto di aver scantonato e che questa risposta non risponde a nulla di quello che hai scritto tu ma sono quasi certo di lasciarla così, visto che tra amici si può anche smarronare, tanto ci si perdona e ci si comprende come Rivera e Altafini quando ridicolizzammo Eusebio. Comunque detto tra noi è un bel po’ che non scrivo una recensione e non ne sento la mancanza e sai perché? Sono troppo timido e rispettoso del lavoro altrui (sì, anche delle cagate) per poterne parlar male. Piuttosto glielo dico a tu per tu. Che ci vuoi fare? Sono fatto male, lo so, lo so.


G: Vedo che ci viene naturale tirar fuori persone ed eventi di sport non solo perché il Guerin Sportivo è stato (ed è ancora, con tutti i limiti del caso) il nostro primo libro di lettura ma anche e soprattutto perché un evento sportivo coi fiocchi è ottima scuola di narrativa. Fornisce lumi prodigiosi sugli abissi insondabili dell'animo umano, insegna la resistenza e il sudore e la capacità di gestire le proprie forze e le motivazioni per risollevarsi dopo un'avversità. Una corsa di ciclismo è un romanzo intero: tre settimane di Tour sono Guerra e Pace, un giorno di Mondiale è Truman Capote. E in questi tempi di risposte immediate, massima comodità garantita e collegamenti iperveloci dell'animaccia loro, quando vedo un ciclista che arranca in salita al trentasettesimo posto mi sembra sempre di vedere uno scrittore che decide di scrivere tutto un romanzo a penna.


A: Hemingway paragonava la scrittura a un match di pugilato e si sentiva in grado di sfidare Tolstoj e Bukowski voleva combattere contro i grandi e faceva pesi di notte. Quando penso al genio oltre che a Joyce penso a Maradona; quando penso alla perseveranza di Alfieri vedo Aldo Maldera (III) che consumò la fascia sinistra… quando trovo in una pagina un colpo che vale il prezzo del libro penso anche a una punizione di Baggio o a una veronica di Marco Van Basten. C’è un legame stretto nella mia vita di narratore e calciatore. Ho giocato con Gregucci nelle giovanili del Taranto, ma lui è finito nella nazionale di Sacchi anche se solo una volta e io ho pubblicato dei libri. Mio padre lavorava all’Italsider e al tempo stesso leggeva i classici greci in originale. Lui amava l’Iliade che considerava il libro eppure l’ho visto commuoversi sino alle lacrime nel ricordo di Pepe Schiaffino e Dino Sani. Il ciclismo è nobile ma io sono per la rete che si gonfia. Vedere la grande Olanda degli anni settanta mi mette tutt’oggi i brividi. Quando leggo alcune pagine di Kafka resto smarrito davanti a una potenza così devastante, ma ti assicuro, amico mio, che quando s’è suicidato Agostino Di Bartolomei sono rimasto secco. Chi sono i miei parenti? Mia zia che non vedo e non sento mai e che non mi ha mai trasmesso amore ed emozione? No. I miei cari, i miei parenti sono Gabriel Garcia Màrquez, Orwell, Philip Dick, Louis Ferdinand Céline… e poi Enrico Albertosi, Pietro Maiellaro, il grande Johan Neeskens… ma anche degli oscuri calciatori che ho amato per una singola prodezza che ha senso forse solo per me così come ho amato scrittori per una pagina, un incipit… James Ellroy di La collina dei suicidi, Antonio Cassano contro l’Inter a San Siro, il Chuck Palahniuk di Fight Club, il Marius Kempes dell’Argentina ’78, il gol di Zinedine Zidane al Bayern Leverkusen nella finale di Champions… emozioni! Questo è quello che cerchiamo attraverso la narrazione di una storia o la visione di 90 minuti. Emozioni. Attraversiamo questa sporca vita un giorno dopo l’altro, ci svegliamo, andiamo a lavoro, mangiamo, tubiamo, ci ammaliamo eccetera eccetera ma a volte la luce si accende, Antonio… e si accende per una frase di Viaggio al termine della notte “la tristezza del mondo assale gli esseri come può, ma ad assalirli sembra che ci riesca quasi sempre” o la poesia di un vecchio filmato della farfalla granata che un incidente ha consegnato alla mitologia.


G: L'altra sera ho sentito Panatta lamentarsi del fatto che il tennis italiano è in crisi perché ci sono molti campi da tennis, molti club specializzati, molti maestri e molti allievi ai quali viene insegnato a giocare e non a vincere. "Vincere è uno sport diverso", ha detto. Io concordo e mi chiedo, anzi ti chiedo: secondo te stava sottilmente alludendo all'attuale generazione di scrittori italiani?


A: Sì, sono d’accordo con Panattone. Le scuole sono la rovina dell’arte. Lo sono state sul finire del 1700 per quanto riguarda la pittura. Prima pensavo che l’arte dovesse essere per tutti perché ognuno di noi ha diritto a una forma di espressione, ma negli ultimi anni ho cambiato parere. L’aspetto popolare si confonde con quello mercantile: ovunque è così. Se vuoi entrare nelle giovanili della Lazio devi essere alto almeno un metro e settantacinque e pagare un botto di soldi. Se vuoi entrare nella scuola Holden devi pagare. Ci viene detto che Carver è venuto fuori da corsi di scrittura creativa e Brett Easton Ellis anche. Ci viene detto che Moravia pagò per pubblicare il primo libro. Puttanate. Antonio, la verità è che su questo terreno tutto è insidioso e non ci sono regole precostituite, altrimenti uno come Manoel Francisco dos Santos, conosciuto col nomignolo di Garricha, non avrebbe mai giocato al calcio con la sua poliomielite. Solo il genio va assecondato. Gli altri è giusto che scrivano, per l’amor di Dio, ma se li tengano per sé i loro libri. L’arte a tutti anche attraverso scuole che forniscono patenti di scrittori è un delirio. Conosco ragazzi che dicono di fare gli scrittori con zero tituli all’attivo, solo una partecipazione a una antologia collettiva da quattro soldi. La scrittura è altro, secondo me. La scrittura è gestazione lenta e inesorabile dentro di te, è stalagmiti che sedimentano nel tuo cranio. Possibilmente fatti e circostanze negative, cose che ti hanno portato a chiuderti in te, a estraniarti da questo mondo, a non accettare i paradigmi universalmente riconosciuti. Scrivere è inadeguatezza di fronte al garzone del lattaio e questo viene dato a pochi. Scrivere è un mix di talento, perseveranza, pazzia, incoscienza, metastasi e passione. Non c’è scuola che possa darti un decimo di tutto questo. Non c’è insegnante che possa trasmettermi un millesimo del dolore necessario per far germogliare un fottutissimo rigo. IO AMO GLI SCRITTORI NON PROFESSIONISTI. Quando lo diventano cominciano a insegnare in corsi di scrittura, si ficcano nelle redazioni di una casa editrice, si danno alle pubbliche relazioni, ma di fatto hanno finito di scrivere nel vero senso della parola. Le cose migliori sono state scritte in uno stato di difficoltà. Joyce non se la passava bene; il primo Hemingway pagava dazio alla guerra; Edgar Allan Poe oggi andrebbe di corsa dal neurologo; il giovane Dante lo porteremmo al CIC; Leopardi nemmeno lo nomino perché sarebbe il coglione del villaggio; Céline era odiato persino da suo padre; Kafka, Campana, Van Gogh, il grandissimo Stig Dagerman… dei rovinati. Non avrebbero nemmeno saputo come ci si iscriveva a una scuola. Il grande bretone ha detto che hanno valore solo le storie per le quali si è pagato. Stephen King dice che l’unico requisito per diventare scrittore è la capacità di ricordare la storia di ciascuna cicatrice. Il mitico Robert Ervin Howard non resse e si ammazzò e lo stesso fece Virginia Woolf. John Kennedy Toole grazie a una madre opprimente andò in pezzi e non credo che avrebbe potuto scrivere un libro come Una banda di idioti se non avesse avuto la sua buona dose di depressione a sfondo sessuale legata a una madre che non gli permetteva di vedere nessuno a causa di una gelosia morbosa. E il corso di scrittura creativa a H.P. Lovecraft lo tenne la madre (sempre ’ste madri) chiudendolo nello studio e intimandogli di non uscire perché era così brutto che avrebbe creato problemi a tutti. E visto che siamo in tema di madri non credo che gli incubi narrativi di James Ellroy sarebbero stati così potenti ed efficaci da un punto di vista letterario se non si fosse trovato la madre – che passava i fine settimana a scopare con chi capitava – morta strangolata nel giardino di casa quando lui aveva appena otto anni o giù di lì. Altro che corsi di scrittura creativa! Quelli sono buoni per creare finti intellettuali. I narratori di razza, quelli alla Conrad, per capirci, portano addosso le stimmate e non venite a farmi esempi discordanti rispetto a questa mia teoria. Non credo agli esempi. Per un Tolstoj che ha vissuto bene (anche se ha visto morire 5 figli e lui stesso è morto lì, in quella piccola stazioncina abbandonata di Astapovo) c’è sempre un Dostoevskij che davanti al plotone di esecuzione deve aver appreso 101 lezioni di scrittura creativa tutte in un botto. Grazie per la splendida chiacchierata, magico Antonio Gurrado, Guru… per me semplicemente Guru.


G: Grazie a te, il paragone con Rivera e Altafini ’63 è stato commovente. Chissà se un giorno ci diranno che ci intendiamo come Ronaldinho e Huntelaar.


A: Temo di no.

martedì 17 novembre 2009

In galera

Col portatile fuori uso devo arrangiarmi con quel che si può. Finisce che limitando la mia presenza virtuale esacerbo quella reale e in Inghilterra non è mai un bene. Ieri, ad esempio, poco c'è mancato che mi arrestassero per conclamato sessismo (in Inghilterra è reato per davvero, esattamente come dare dell'omosessuale a un omosessuale).

Stavo facendo la coda da Sainsbury's e avevo comprato l'inverosimile, visto che dopo due settimane d'Italia nel mio frigorifero inglese era rimasta solo l'eco. Dietro di me c'era una signorina con due sacchetti di ortaggi e una barretta energetica, al che le ho detto che se voleva poteva tranquillamente sorpassarmi. La sventurata rispose.

Ho rischiato grosso perché dietro di lei c'era uno sventurato con meno cose ancora, un dentifricio e un cavatappi grossomodo. Il giovanotto  mi ha guardato come a chiedermi perché lei sì e lui no. Forse perché lei era donna? In tal caso io ledevo il suo diritto a essere in tutto e per tutto uguale a una femminuccia e come tale ero passibile di denunzia.

Senza contare che la femminuccia stessa avrebbe potuto facilmente incriminarmi con questa risposta: "Perché mi fa passare avanti? Crede che io non sia in grado di reggermi sulle mie gambe? Sottintende che in quanto donna ho più fretta di lei di tornare a casa e fare la calzetta? Il suo esplicito riferimento a che io abbia comprato solo tre cose e lei a centinaia è una sgradevole sottolineatura dell'evenienza che lei guadagni più di me. Che questi suoi soldi siano di provenienza onesta, poi, è tutto da dimostrare. Indubbiamente riferendosi ai miei acquisti come "tre ortaggi" lei faceva riferimento alla possibilità che io sia vegetariana, deridendomi in quanto tale, o peggio ancora che io sia anoressica,  con la consueta sicumera del maschio che dileggia questa patologia tipicamente femminile e come tale a lui incomprensibile".

La prossima volta che uno non mi passa davanti gli vado dietro io per prenderlo a calci nel sedere.

mercoledì 11 novembre 2009

Omaggio ad AA

Sul Super-Foglio di oggi Super-Gurrado interpreta alla luce degli eventi successivi Super-Eliogabalo di Super-Arbasino.



martedì 10 novembre 2009

Grazie mamma

E già, evidentemente se uno che si chiama Nidal Malik Hasan sventola una mitragliata a una trentina di soldati americani urlando che Allah è grande l'Islam non c'entra nulla e bisogna piuttosto interrogarsi sulle turbe psichiche del singolo individuo scavando nel suo passato, magari nei rapporti con la mamma. Sono sicuro che, scavando scavando, si scoprirà che non ha mai letto questa conciliante pagina delle memorie di Usama ibn Mundiqh, il libro Cuore islamico del XII secolo: "Iddio (sia glorificato) ci diede la vittoria sul nemico. Tornai a casa per cercare certe armi, e trovai soltanto i foderi delle spade e i sacchetti di cuoio dei farsetti. Dissi: -Mamma, dove sono le armi? -Figlio mio, le ho date a chi se ne può servire per combattere: non credevo che tu l'avessi scampata. -E mia sorella, che sta facendo qui? -Figlio mio, l'ho messa sul balcone e stavo alle sue spalle. Appena avessi veduto arrivare gli eretici, l'avrei afferrata e scaraventata nella valle: vederla morta, ma non vederla prigioniera in mezzo ai contadini e ai rapitori!- La ringraziai di questo, e anche mia sorella la ringraziò, invocando su di lei tanto bene." Ringraziamo anche noi Nidal Malik Hasan poiché la strage di Fort Hood, come ha detto Barack Hussein Obama, ha mostrato il meglio dell'America.

lunedì 9 novembre 2009

Strategia politica

Ieri s'è finalmente capito dove volesse condurre la complicata strategia politica intrapresa da Fini qualche mese fa. Voleva condurre da Fabio Fazio.

sabato 7 novembre 2009

Bang


Una new entry nella galleria dei complimenti ruffiani:
"Gurrado è come Lucky Luke,
scrive più velocemente della sua ombra".



venerdì 6 novembre 2009

RadioGurrado


Gente che ascolta Radio3 mi fa presente che un mio articolo è stato citato fra grandi risate nella rassegna stampa lo scorso 21 ottobre. C'è un link: cliccate qui e ascoltate dal minuto 39 (o anche prima, se non siete monomaniaci).

giovedì 5 novembre 2009

Crociata

In fin dei conti non hanno tutti i torti: è una presenza incombente e fastidiosa, dall'identità incerta e messa lì più per bolsa tradizione che per convinzione effettiva. Si rifà a ideali ormai tramontati. Spunta dappertutto ma nessuno ne nota la presenza e nessuno ne sentirebbe la mancanza. Resiste male all'usura del tempo, offende lo sguardo di chi non ci crede. Da tutte le scuole d'Italia togliamo la bandiera europea.

mercoledì 4 novembre 2009

Dio, patria e fantasia

In Italia abito su un monumento ai caduti - nel senso che la finestra che ho di fronte in quest'istante si affaccia su un giardinetto comunale con annesso monumento ai caduti - e quindi ho agio di ascoltare in diretta tutte le celebrazioni in loro onore. Oggi, 4 novembre, ho orecchiato una significativa cerimonia aperta dal discorso di un anziano, proseguita con la lettura di brani di soldati morti a opera di bambini indigeni e conclusa dall'allocuzione di un rappresentante del municipio. Tutto per benino: la banda, Fratelli d'Italia, la Preghiera per i Caduti, il Segno della Croce. Ai bambini è stata spiegata l'importanza del 4 novembre nella decisione delle sorti della seconda guerra mondiale e della spedizione dei Mille.

martedì 3 novembre 2009

Umberto Garibossi

Se comprate il Foglio di oggi fate in tempo a capire tre cose:

1) perché fra Renato Brunetta e Massimo d'Azeglio non passa veruna differenza;

2) perché Silvio Berlusconi ha fondato il proprio successo in politica su un canovaccio di Edmondo De Amicis;

3) perché l'unico partito italiano che difenda i valori del Risorgimento è la Lega Nord.

lunedì 2 novembre 2009

Cuore di legno


Per la prima volta nella mia vita ieri sera ho ringraziato Iddio di non avere un figlio mentre guardavo la fiction di Rai1 Pinocchio, tratta dal fortunato cartone animato di Walt Disney. Sarei altrimenti stato inchiodato alle seguenti domande ingenerate dalla confusione:

- Babbo, perché il Grillo Parlante ha le tette?

- Babbo, perché mastro Geppetto parla con la maestra di Cuore?

- Babbo, perché nel campo dei miracoli Pinocchio incontra le lucciole? La sceneggiatura è stata scritta da Pasolini?

- Babbo, perché la Fata dai Capelli Turchini ha i capelli rossi? E perché è uguale a Moana Pozzi?