Il diario intimo dell'Europeo
Sabato 16 giugno
h 20:45 Repubblica
Ceca-Polonia e Grecia-Russia a Caldonazzo
Girellando fra le bancarelle del caseificio, dismesso e
riattato, di Caldonazzo scopro che Claudio Gavioli ha pubblicato un nuovo
romanzo (Gavioli è lì ma, modesto, non ha ritenuto opportuno rivelarlo) che s’intitola
L’uomo solitario. La copertina è
convincente – l’insegna di un dubbio fast food – però c’è qualcosa che mi
sembra mancare dal titolo. L’aggettivo “solitario” mi è sempre parso un termine
troppo banale, compiacente forse, per illustrare la solitudine; mi ricorda
anche i giochi di carte con cui si ammazza il tempo e che secondo la vulgata di
quel dì stabilivano se l’esecutore dovesse sposarsi o meno. Meglio sarebbe
esprimere il concetto con un’azione icastica: uno dei versi più spaventosi
della storia della musica non colta è l’attacco degli Iron Maiden in Fear of
the Dark: “I am the man who walks alone”. Però in Inglese fa il suo effettaccio
(potenza dei monosillabi) mentre in Italiano L’uomo che cammina da solo mi fa pensare a Portafoglio, un signore
disgraziato che è il metronomo del centro storico di Gravina, e sono abbastanza
sicuro che Gavioli non avesse intenzione di indurmi a tali associazioni. Forse L’uomo che vaga da solo? Non mi suona
gran che anche perché vi colgo riferimenti a Melmoth the Wanderer, un romanzo di Charles Mathurin che ebbe l’indubbio
merito di suggerire l’alias al vecchio e decaduto Oscar Wilde che, dopo la
galera, si registrò in alcuni alberghi sotto il falso nome di Sebastien
Melmoth; però siamo al tramonto del postmoderno quindi direi che è finita da un
pezzo l’era della narrativa gotica. Non faccio in tempo a pensare a ulteriori
alternative perché il trenino valsugano tocca Caldonazzo e i tre quarti d’ora
di viaggio da Trento sono terminati: devo tornare in albergo, scrivere due
cosette approfittando del tavolino sul balcone, comprare il quotidiano locale
per inesausta curiosità del minimo, decidere come cenare e trovare un posto
allegro per guardare la partita. I compagni di viaggio di Quasi Rete, coautori
del libro ciclistico di cui sopra, sono ripartiti dopo pranzo tornando alle
proprie case e famiglie; io, che al massimo mi aspetta il portinaio, ho deciso
au contraire di trattenermi un’altra notte ancora suscitando scompiglio nell’alberghetto:
“La faccio spostare subito in una matrimoniale”, argomenta il concierge a
colazione, “così appena arriva sua moglie trova tutto pronto”. “Per favore, se
arriva mi avvisi con un certo anticipo; non vorrei che risultasse troppo sorprendente”.
Benissimo; risolto l’equivoco e congedati i partenti, sotto il contenuto sole
del primo pomeriggio ho deciso di andare a Trento, che è una bellissima città,
a prendere un caffè con l’ex fidanzata di cui sopra: mi sembrava maleducato
arrivare così vicino e poi voltarmi indietro. Si rinnova il miracolo di Affi:
nonostante che le mie visite in loco fossero piuttosto rade (una), appena
arrivato alla stazione prendo la strada per il centro con una sicurezza tanto
sorprendente quanto inutile visto che la signorina mi avverte che sta
raggiungendo la stazione da tutt’altra strada. Rinculo e, sul treno di ritorno,
oltre che al romanzo di Gavioli penso che siamo proprio persone ben civili se
dopo, che so, tre o quattro anni ci siamo presi un caffè con cordiale
imperturbabilità che potrei definire britannica, se non conoscessi davvero i britannici;
e che almeno dalla mia metà questa imperturbabilità è sintomo non di compiuta
educazione (un dito nel naso non si nega a nessuno) bensì di ingresso nell’età
in cui i rimpianti per le cose che si potevano fare meglio cominciano a
sovrastare le aspettative di saper farle effettivamente meglio in seguito (me l’ha
detto perfino Moser): è, credo, una mera legge fisica connessa all’andare del
tempo, così come una sfera posta su un piano inclinato rotola giù o una coppa
grande un tanto non può contenere più liquido della sua capienza, e ciò che si
continua a versare va sprecato. Pazienza: mi consolo con una pizza asiago e
pere che non aiuterà la mia lotta alla dissenteria però almeno è buona, se non
che necessita a quanto emerge di una lunga preparazione durante la quale sono
costretto a smanacciare parossisticamente sul cellulare per darmi un tono,
mando addirittura due messaggi a mia madre e poi mi metto a cancellare
sistematicamente molte altre mittenti e destinatarie, senza per questo
ingannare lo sguardo scettico di comitive e coppiette (siedo esattamente in
mezzo al dehors). Qualche tavolo più in là, un tedesco coi calzini bianchi
legge un libro che però non è il romanzo di Gavioli e nemmeno lo splendido Anticipi, posticipi che Francesco Savio
ha scritto a quattro mani con me e che vi consiglio senz’altro come passatempo,
erudizione e cimelio. In Inghilterra, quando vivevo lì, bar e ristoranti erano
pieni di fregni buffi soli al tavolo con un libro fra le mani o un computer (immancabilmente
Apple) davanti: secondo me accade perché mangiare serve alla conservazione ma
la conservazione dell’individuo che non si accoppia né si associa costituisce
un danno per la società, di modo tale che coppiette e comitive si mettano a
guardarlo di malocchio e lui cerchi di difendersi col libro, col portatile, col
cellulare, per dimostrare che nonostante l’evidenza anche lui è capace di
attività e interrelazione, per quanto di genere meno immediato rispetto ai suoi
simili. Per fortuna la pizza arriva e interrompe tali elucubrazioni ma io,
temerario, alla fine voglio ordinare anche il dessert e, al notare che
improvvisamente tutte le coppie e le compagnie che mi circondano (il tedesco
dal calzino se n’è andato prima di finire il libro) sospendono il loro pasto, lasciano cadere patatine, cucchiaini, tazzine
da caffè, bicchieri di cognac e si chiedono muti però espliciti “Ma come, sta
da solo e pretende di mangiare pure il dolce?”, mi accorgo che se Gavioli
avesse voluto conferire una portata davvero intimidatoria al titolo del suo
nuovo romanzo avrebbe dovuto intitolarlo, né più né meno, L’uomo che mangia da solo. Decido che la partita torno a guardarla
in camera.