mercoledì 20 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Venerdì 15 giugno

h 18 Ucraina-Francia sulla A22 Modena-Brennero
Due eventi incredibili sono accaduti alla stazione di servizio di Affi: tre signore che fanno parte di una giuliva comitiva di attempate tedesche ordinano, anziché il tè delle cinque, un cappuccino e una birra media ciascuna. Non ho indagato sull’ordine secondo cui hanno consumato. Poi, dopo che io e i miei compagni di viaggio sulla tratta Lodi-Caldonazzo abbiamo depositato le nostre trattenute pipì, una volta ripartiti ci accorgiamo che nessuno ha controllato a che stazione di servizio ci fossimo fermati. Io azzardo “Affi” e di lì a dieci secondi un’indicazione dà ragione al mio timido bisillabo. Non l’avevo letta prima. È capitato che la mia antica inveterata abitudine di seguire, minorenne, i miei genitori nelle eroiche traversate dalla Puglia al Sudtirolo su un’Opel Corsa tuttora in possesso deve avermi dotato di un preconscio tale da consentirmi di riconoscere al volo ogni punto dell’A22, ogni curva dell’Adige, ogni campanile a cipolla, e indicare al volo: “Ala/Avio! Egna/Ora!”. Ho fatto due conti e non vedevo la A22 almeno dal 2005. È vero che un tempo avevo la fidanzata a Trento e qualche volta (una) sono andato a trovarla però, non disponendo di regolare patente, in treno. Né ho trascorso gli ultimi sette anni a pensare alla conformazione della stazione di servizio di Affi, tuttavia non escludo la seguente associazione d’idee: era proprio la stazione di servizio dove io e i miei ci fermavamo al primo sorgere dei monti e la coincidenza era troppo lampante all’istinto perché la memoria riuscisse ad affondarla. E ho anche la spiegazione razionale sottesa che spoglia la coincidenza di ogni riverbero metafisico, anche se lo so che siete romantici: Affi è la prima stazione di servizio dopo Verona e l’istinto di conservazione di chi sfreccia in autostrada e desidera arrivare (benché vivo) il prima possibile porta a concedere la pipì ai passeggeri solo dopo che si sia superata una città grossa, Verona in questo caso; non prima perché non si sa mai. Le montagne di contorno però non rassicurano, perché via via richiudono l’orizzonte, e arriva il punto in cui, verso lo svincolo di Trento Sud, il sole è ancora piuttosto alto e il cielo ancora bello azzurro ma noi ci ritroviamo in piena scuro perché una montagna ci fa da ombrellone. Una volta in albergo, le immagini del fortunale che vanno in onda al posto della partita rinviata rafforzano il senso di naturale precarietà che distilla ogni volontaria o coatta gita in montagna.

h 20:45 Svezia-Inghilterra a Caldonazzo
La vita è ingiusta perché per affiancare il filologo agonistico Gino Cervi e il brerologo anglofilo Andrea Maietti nel corso della presentazione di un libro corale a tema ciclistico nella prima serata del Trentino Book festival vengo scelto io, che mi trovo subito nell’imbarazzo di dover spiegare perché mai detto libro alberghi una mia unica frase su Francesco Moser, però lunga nove pagine, mentre per giunta al mio fianco siede il medesimo Francesco Moser che non a torto ha cessato di raccogliere più che meritati applausi e mi guarda con lo sguardo che significa appunto: già, perché? Allora io spiego che ho tentato di riprodurre stilisticamente, tramite un lunghissimo periodo che gira in circolo senza fermarsi mai e tramite la predilezione smaniosa per le virgole che perfino Alfieri si rimproverava con sarcasmo, la struttura del tentativo di record dell’ora che consta nel continuare a girare in tondo curvando sempre dallo stesso lato (le virgole) e non potendo fermarsi mai pena la rinunzia (il punto). Ad aggravare la mia posizione, il racconto si intitola, secondo un film di Dudley Moore del 1980, “Io, modestamente, Moser”. Sentendo che il punto interrogativo nello sguardo del campione va arricciandosi vieppiù, mi precipito a giustificare la mia morbosa predilezione per il ciclismo (oltre che per le virgole) che mi spinge a parlarne coram populo a 187 km in linea d’aria da casa mia invece di restarci comodamente a guardare la partita. Essa si fonda su due motivi: il primo non me lo ricordo; il secondo è che io non so andare in bicicletta (boato del pubblico) quindi i ciclisti più che campioni mi sembrano semidei. L’ultima metà della frase in verità si perde fra gli echi del boato e sbatte contro la domanda che Cervi sta per farmi – lo vedo con la coda dell’occhio mentre afferra il microfono e riesco a prevenirlo a dito puntato: “No, non riuscirai a convincere Moser a insegnarmi ad andare in bicicletta in una sera come fece Fausto Coppi con Alfonso Gatto”. Se non che Moser, da interrogativo fattosi esclamativo, all’improvviso se n’esce con un’àncora insperata, da uomo di poche parole; mi squadra, mi pondera e proferisce: “Ormai è tardi”. Il pubblico bofonchia mentre provo sincero sollievo; di tanto in tanto è bello scoprire che non c’è più tempo.