sabato 30 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Mercoledì 27 giugno

h 20:45 Portogallo-Spagna a Pavia
Manca solo Maurizio Milani, che ha appena pubblicato Fidanzarsi non conviene, al tavolo della mensa al quale impieghiamo l’intera cena a disquisire se sia meglio vivere soli o male accompagnati – discussione che, devo ammettere, è sorta in seguito a una considerazione autobiografica sulla fobia di presentarmi ai matrimoni altrui, figurarsi al mio. Altre persone vorrebbero presentarsi solo al proprio, altre desidererebbero mandare un figurante e camuffarsi fra gli invitati, altre ancora preferirebbero essere il prete. Io però sono persuaso che non è sui grandi eventi che si decida la riuscita di un rapporto bensì dai dettagli infinitesimali che messi assieme ne costituiscono la cifra: il matrimonio è impressionista, e alla fine non si litiga mai sui massimi sistemi ma sempre per lo scolapasta. Prendiamo la partita di stasera: io sono libero di salire in camera subito dopo l’animata cena, indossare senza vergogna un pigiama corto che riproduce infinite volte un giocatore di baseball che lancia batte agguanta e fa home-run, piazzarmi indolente sul materasso dopo avere mangiato un pacchetto di biscotti e sudare a fontana mentre spagnoli e portoghesi corrono. In realtà corrono soprattutto i portoghesi, che però storicamente sono campioni del mondo nel non tirare in porta giammai, quindi il mio sudore non denota alcuna emozione bensì mero surriscaldamento. Sono libero perfino di addormentarmi poco dopo l’inizio dei supplementari (è una partita talmente brutta) e di schiudere di tanto in tanto mezza palpebra per controllare quando arrivino i rigori; e sono libero nientemeno di seguire detti rigori in piedi per minimizzare il rischio di assopimento (sono mica un cavallo) e addirittura di accogliere con sollievo la rete decisiva che mi consente di spegnere il tutto in tempo record e di essere coricato due minuti dopo (pia illusione: mi sveglierò madido di sudore nel cuore della notte e non perché ho sognato di essere Cristiano Ronaldo) (ora che ci peso ho sognato una donna nuda che sfrecciava in bicicletta con uno stendipanni al posto del manubrio, ma questo è un altro discorso) (per dire, una volta ho sognato di dover spedire una mail ad Alfano ma di non ricordarne l’indirizzo, quindi non darei troppo peso alla mia attività onirica). Poi, vabbe’, una volta sveglio mi sono messo a pensare a cosa sarebbe accaduto se fossi stato fidanzato, quali parole alate sarebbero state proferite al mio indirizzo. Ne elenco alcune, fior da fiore: “Non mangiare ché ingrassi”; “Che t’importa di guardare Spagna-Portogallo se sei italiano?”; “Carino, questo che tira le punizioni”; “Non sudare ché dimagrisci”; “Ah, ma quindi continuano? Non finiva dopo novanta minuti?”; “Se ti interessava la partita, perché ti sei addormentato?”; “Se stavi dormendo, perché ti sei svegliato?”; “Alfano con uno stendipanni? Sei sicuro?”.

venerdì 29 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Sabato 23 giugno
h 20:45 Spagna-Francia a Parigi
Non so se fosse un annuncio su un quotidiano oppure un manifesto, fatto sta che – si sa come sono i francesi, sempre un sopracciglio inarcato sulle vicissitudini terrene – l’elenco delle possibili attività da svolgersi in serata a Parigi inizia con l’alternativa secca: “Questa sera potete scegliere fra assistere impotenti alla disfatta dell’équipe de France contro la Spagna, oppure”, e giù una lista lunga così di cose da fare, più o meno plausibili. Non l’ho visto coi miei occhi ma me l’ha riferito Peppe non appena è arrivato all’appuntamento in place de la Contrescarpe. Alcune necessarie precisazioni: Peppe, come i più intuitivi di voi avranno colto, non è francese e nemmeno spagnolo; l’appuntamento è di fronte a un locale che non posso nominare e l’abbiamo fissato lì non perché avessimo intenzione di andarci ma perché è talvolta frequentato da Emmanuelle Béart; senza preavviso alcuno, Emmanuelle Béart non si presenta; nella medesima place de la Contrescarpe, pieno quartiere latino, lo stesso Peppe aveva visto coi suoi occhi anni prima un bevitore di birra stiracchiarsi al tavolino, proferire “Ah! je pense donc je suis” e poi ruttare. Il tempo di ricordare tre di queste cose e la Spagna, nel lontano schermo di uno dei bistrot limitrofi, ha già segnato nel disinteresse generale dando libero accesso alla seconda multiforme alternativa presentata dal manifesto di cui sopra, che forse era un annuncio su un quotidiano. Optiamo per una lunga passeggiata che attraverso il Luxembourg ci conduce a Montparnasse dove possiamo scegliere fra una vasta gamma di creperie bretoni, fra le quali prevale Le Saint-Malo. Io sono contento perché a Saint-Malo è ambientato il racconto più divertente di Voltaire, che si intitola L’Ingenuo e narra di questo giovane transfuga urone che viene convertito al Cristianesimo in Bassa Bretagna e non che per davvero legge il Nuovo Testamento e finisce per voler farsi battezzare nelle acque di un fiume, per voler farsi circoncidere come San Pietro, per voler menare il suo confessore che non si lasciava confessare da lui nonostante che nell’epistola di San Giacomo (5, 16) sia scritto a chiare lettere: “Confessate i vostri peccati gli uni agli altri”. Mi trattengo dal farne partecipi gli avventori, non vorrei mai che mi giudicassero noioso e uomo di un solo argomento; tanto più che sono a Parigi in occasione di un convegno alla Sorbona che si è concluso, dopo due giorni di discussione sui gusti musicali di Voltaire, con la lettura di una lettera in cui il medesimo ammette: “Sono duro d’orecchie, sono un po’ sordo”.

Domenica 24 giugno
h 20:45 Inghilterra-Italia a Pavia
La giornata, niente male, si apre con un’abbondante colazione in Place de la Sorbonne, dove il cielo minaccia e la temperatura è scesa al punto che col maglioncino si avverte un po’ di fresco. Prosegue con un caffè al Charles De Gaulle, forse l’aeroporto dove il caffè (un caffè vero, italiano) costa di più al mondo: due euri e trenta liscio, due euri e quaranta macchiato benché col benefit di poter saccheggiare aggratis quotidiani sparsi, così che mi rifaccio prendendo per il viaggio Le Monde, L’Equipe e – a sfregio – Repubblica; l’unico caso al mondo, inoltre, in cui il caffè che abitualmente mi rende nervoso serva invece a rilassarmi perché dieci minuti prima, mentre mi aggiravo nell’edicola di là dai controlli di sicurezza alla ricerca di un’adeguata guida al Tour de France, senza particolare preavviso era fatto brillare un bagaglio incustodito e vi assicuro che sentire bum in aeroporto non è una condizione gradevole (forse è l’unico caso in cui si provi sollievo all’idea di viaggiare da soli; forse no). Dopo di che, in volo, dei peculiari biscotti all’anice e un bicchier d’acqua fresca griffato Air France; pranzo rimandato all’atterraggio, nel primissimo pomeriggio, con un panino simil-Autogrill al pretenzioso chiosco degli arrivi di Linate prima di prendere la navetta per Milano. Niente caffè in Stazione Centrale perché alla mia età è bene non esagerare con le emozioni: l’euro risparmiato finisce dritto nella tariffa del biglietto di prima classe sull’intercity per Pavia, otto anziché sette. A Pavia, sarà che ci sono venti gradi in più rispetto a Parigi, il mio corpo impazzisce, prende a sudare oltre ogni ragionevolezza e mi vedo costretto a tentare di blandirlo con un Cucciolone gelato. Nel frattempo mi ha chiamato Gionata che in serata si porta a Pavia un paio di altri vecchi compagni di liceo (chi di stanza in Lombardia, chi di fugace passaggio) nonché sua moglie. Prenoto in pizzeria e giunta l’ora, per non tediare le donne con la solita partita, ci sistemiamo così: loro di spalle allo schermo, noi di faccia. (Le donne, si sa, sono l’unica minoranza numericamente preponderante). La partita sarà lunga e sappiamo in anticipo che si andrà come minimo ai supplementari, ergo prendiamo tempo ordinando un antipasto di mare e uno di salumi, da spartire. Mi contengo, timoroso ancora per le mie menugia, e in luogo dell’universale birra media mi offro una Coca Cola. Poi arrivano le pizze, ma non basta: c’è tempo anche per i dessert oltre il novantesimo. Chi prende la torta fichi e noci, chi il profitterol; io, la foresta nera. Quindi è d’uopo l’ammazzacaffè, che visto il caldo è bene sia un limoncello. Dunque, ricapitolando la giornata gastronomica: colazione continentale, caffè, biscotti all’anice, panino, gelato, pesce, affettato, pizza, Coca Cola, torta, limoncello e alla fine, tanto per gradire, cucchiaio.

giovedì 28 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Giovedì 21 giugno
h 20:45 Repubblica Ceca-Portogallo a Parigi
Non so se possano fungere da attenuanti, ma bisogna considerare le circostanze specifiche a dir poco eccezionali. Anzitutto mi trovo all’estero per la prima volta dopo essermi trasferito da Oxford in Italia; ma essendo Parigi si tratta di un estero meno scabro dell’Inghilterra, un estero più simile al punto di partenza, meno esigente nell’adattamento, forse più (provo orrore a scriverlo) europeo: ma è una considerazione vana, il brutto dell’Europa è che ciascuna nazione tende a reputare più europeo ciò che più le somiglia, e quindi paradossalmente ciò che è più uguale e definito e nazionale e non ciò che può essere più diverso e indefinito e quindi europeo. Chiaro, no? Adamantino. Inoltre le condizioni ambientali sono prostranti in maniera che avrebbe commosso Montesquieu: mentre ero sul trenino che conduceva da Charles De Gaulle a Saint Michel, il diluvio veniva giù da un cielo che di giorno non avevo mai visto così oscuro, nemmeno in Inghilterra, con l’aggravante della totale assenza di illuminazione perché erano le tre del pomeriggio; il Sacré Coeur si affacciava dalla sua collina così grande, grigio e cupo da non sembrare nemmeno più una chiesa. L’impronta della pioggia è rimasta sul resto della giornata anche dopo che le nubi erano progressivamente andate diradandosi. Inoltre in fretta e furia erano stati montati a ogni crocicchio i palchi della festa della musica, un obbrobrio cacofonico che speravo di poter imputare ai danni dell’amministrazione Hollande e che invece mi hanno rivelato risalire ad almeno trent’anni fa (be’, insomma, c’era Mitterrand). Da quel momento in poi, a Parigi è stato impossibile parlarsi, o se non altro è diventato impossibile ascoltarsi. Infine mi sono rifugiato a guardare la partita in una brasserie sul Boulevard Saint Germain che si chiama Le 96 (leggasi quatre-vingt-seize) e che pur essendo, appunto, una brasserie forse si vergogna perché dall’insegna risulta “café contemporain”, lasciandomi con vari dubbi su come possano essere il caffè désuet e soprattutto il caffè futuriste. Conto di neutralizzare la mia fobia di essere notato mentre mangio da solo nel collettivo sguardo rivolto allo schermo ma finisco per passare ancora più inosservato perché di fianco alla trasmissione della partita imperversa un orso marsicano in t-shirt che spara musica a volume contestabile scatenando ben pochi entusiasmi nella clientela in larga parte composta da una comitiva di portoghesi che aveva l’intenzione di guardare la partita ma magari anche di sentirla. Una lavagnetta al muro informa che il benefattore si chiama DJ Cristofo’; lo spelling mi fa sospettare che possa trattarsi di un compatriota ma non indago oltre. Insomma, queste sono le concause. L’effetto è che al primo apparire del risultato in sovraimpessione mi viene spontaneo pensare che in Francese non si possono riprodurre tutti quei bei giochi di parole o equivoci dell’Italiano perché République Tchèque è ben diverso da République Aveugle. Tanta maestria linguistica spiega anche perché allo sportello informazioni dell’aeroporto la questione che avevo posto nel mio Francese più fiorito aveva incontrato risposta in Inglese malaccentato.

Venerdì 22 giugno
h 20:45 Germania-Grecia a Bourg-la-Reine
Si trova Bourg-la-Reine a mezza passeggiata di distanza da Sceaux ma arrivarci da Parigi è semplicissimo: basta prendere la Rer in direzione opposta all’aeroporto e tempo mezz’ora si è lì. Venti minuti in verità, ciò che mi avrebbe consentito di arrivare non solo in orario ma in ammirevole anticipo a cena da Hélène che ha avuto un recente figlio, al quale ho provveduto a regalare un completo di pantaloni blu, camicia bianca e maglione blu così se vuole andare a studiare a Oxford il grosso è fatto. Invece arrivo in ritardo come l’ultimo dei turisti italiani perché nei sotterranei del Luxembourg la biglietteria non c’è quindi bisogna risalire in superficie, ma in superficie a biglietteria è chiusa quindi bisogna camminare fino a Saint Michel, a Saint Michel c’è una sola persona in fila davanti a me ma sembra impegnata in ardite speculazioni finanziarie all’unico sportello aperto, ingarbugliandosi varie volte al punto (anche se a Parigi sono sempre rilassato; a Oxford mai) di farmi concludere repentinamente che è un coglione; quando alfine questo coglione se ne va io mi faccio avanti ma vedo il bigliettaio diventare sgomento, paonazzo nella scoperta di qualcosa che non s’è ben capita e precipitarsi fuori dal gabbiotto all’inseguimento del coglione, che nel frattempo era riemerso in superficie; rinvenutolo, raggiuntolo, risolto tutto ciò che dovevano risolvere mentre io ero ancora in attesa, il bigliettaio è rientrato allo sportello accorgendosi però di essersi chiuso fuori. Il viaggio di ritorno fila più liscio. C’è ancora il sole perché sono le giornate più lunghe e a casa i franchi cenano a orari longobardi; la partita si avvia alla metà ma non me la sento di impiantarmi in casa d’altri per centocinque minuti, pertanto me ne vado ammonendo l’inesperta Hélène sull’eventualità che la Grecia trovi sfogo calcistico alla frustrazione economica tirando uno scherzetto all’avversario germanico. Nessuno mi crede e sul binario in attesa della Rer, mentre sto spiegando a una viaggiatrice nerissima e sperduta che la scritta “Gare du Nord” nell’elenco illuminato delle fermate implica che con ogni verosimiglianza il trenino su cui saliremo fermerà alla Gare du Nord (lei permane scettica ma se non altro evita di controbattere in Inglese), Hélène mi avvisa per messaggino: “But allemand!”. Senza perdere compostezza le rispondo che è una tragédie ma che il y a beaucoup de temps encore, e di conseguenza j’ai confiance. Non faccio in tempo ad aprire la porta della mia camera d’albergo e ad accendere il televisore che vedo la Grecia pareggiare, con Hélène che recede per lo shock all’Italiano e mi scrive che forse sul calcio ho ragione. Senza falsa modestia rispondo convenendo che ho ragione su tutto. Poi i tedeschi segnano il secondo, ed Hélène: “Hum”; segnano il terzo, “Hum hum”; segnano il quarto, e trovo l’ardire di risponderle che forse la Germania è più forte. Da Bourg-la-Reine viene espressa viva ammirazione per la mia perspicacia.

mercoledì 27 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Martedì 19 giugno

h 20:45 Inghilterra-Ucraina e Svezia-Francia a Pavia
La musica barocca colpisce ancora,, questa volta sotto forma di conferenza musicologica su Niccolò Jommelli, alla quale devo partecipare per forza sia perché mi hanno invitato espressamente sia perché si tiene nella libreria in collaborazione con la quale abitualmente organizzo gli incontri letterari con o senza Joe Lansdale, la quale libreria nella circostanza resterà eccezionalmente aperta ben oltre l’eroismo dei suoi gestori. Resisto pertanto alle sirene che all’orecchio mi sussurrano: “Inghilterra-Ucraina, Svezia-Francia… sul letto, sul letto… in mutande, in mutande…”; esco e tiro dritto verso piazza Vittoria stavolta non nella speranza di incontrare frotte di ucraine (le frotte di inglesi, meglio evitarle) ma col consapevole obiettivo di dedicare l’intera serata a Jommelli, del quale tutti sappiamo tutto tanto che non ne dirò parola. Anche perché una volta arrivato in loco, fra una cosa e l’altra salutati gli organizzatori e i librai, fatto un salto a riscontrare che al piano superiore la saletta proprio vuota non è (nonostante la persistente assenza di ucraine), ricordo all’improvviso che devo dire una cosetta al libraio di turno e due minuti prima dell’inizio scendo alla cassa. Dico ciò che devo dire e to’, sarà un segno del destino, sarà l’eterogenesi dei fini, fatto sta che nonostante l’argomento sul quale avevo intavolato la conversazione non avesse niente a che spartire né con il calcio né con l’Inghilterra né con l’Ucraina, tempo sei minuti e il libraio e io stiamo guardando Inghilterra-Ucraina in diretta sul sito della Rai; anzi, non contenti, la alterniamo con Svezia-Francia e grazie al suo ditino fatato riusciamo anche a non perderci nessun goal, nemmeno quello dell’Ucraina che noi, a Pavia, abbiamo visto mentre cinque arbitri, a Donetsk, no. Restiamo così fino alle undici, quando a partita finita un po’ del pubblico comincia a defluire nonostante che la conferenza vada ai supplementari.

martedì 26 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Lunedì 18 giugno

h 20:45 Italia-Eire e Croazia-Spagna a Pavia
A dire il vero avevo capito che avremmo perso e che sarebbe finita ingloriosamente già di prima mattina, in un tempo dilatato che ho trascorso alle Poste, metà in coda metà allo sportello. Dovevo incassare un assegno speditomi dall’Inghilterra (un evento che, vi assicuro, non si verifica spesso) e mi ero messo con tutta la santa pazienza ad aspettare il mio turno che però non arrivava mai sia perché gli sportelli rapidi dedicati ai titolari di carta postamat andavano più lenti degli sportelli standard, comunque onusti di clienti sudaticci, sia perché l’impiegata principe dello sportello postamat faceva affondare il cliente che via via serviva in un gorgo nel quale a occhio non esistevano più un prima né un dopo ma solamente un cristallizzato attimino di attesa. Me ne accorgo dallo sguardo di terrore che la percorre quando le mostro l’assegno britannico, donde confusione fra sterline ed euro, incapacità di comprendere la misteriosa identità della valuta GBP, imprecisione nel ricopiare l’importo nonostante che le cifre restino uguali indipendentemente dalle lingue e dalla valuta, dimenticanza della necessità di leggere la barra della mia carta postamat prima di chiedermi di inserire il pin, addirittura un infortunio al polso sbattuto contro lo sportello medesimo nell’atto di far passare la carta attraverso il lettore, e poi ancora vana ricerca del modulo specifico, imploranti richieste ai colleghi, firme per dare l’assenso all’apposizione di altre firme, insomma un guazzabuglio tale da farmi concludere che se siamo così, e se giochiamo così perché siamo così, allora è la rovina inevitabile. Va detto che per la serata, in tempi non sospetti risalenti a mesi addietro, avevo organizzato la presentazione della nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce fatta da Enrico Terrinoni e pubblicata da Newton Compton, scegliendo la data in quanto giorno feriale più vicino al Bloomsday (a Pavia il venerdì è festivo, come anche il giovedì pomeriggio; non si spiegherebbe altrimenti la ressa di studenti che fuggono su qualsiasi treno). Una volta che è stato diramato il calendario dell’Europeo, abbiamo convenuto che o bisognava spostare la partita o bisognava spostare la presentazione, ciò che abbiamo fatto anticipandola all’ora dell’aperitivo. Ho così avuto modo di usufruire di un’esperienza insperata, ossia guardare Italia-Eire con la consulenza del traduttore dell’Ulisse di Joyce, ossia l’unico altro ponte gettato tra le due culture oltre ovviamente a Giovanni Trapattoni. Mentre la guardiamo – in piedi nel chiostro del bar dell’Università, lui con una birra e io con una sprite perché non è che la mia flora batterica sia stata ricostruita in tempo di record – emerge che il giovane Terrinoni è già professore associato, viaggia tre giorni a settimana pur di esercitare, scrive, traduce, pubblica e ha pure una figlia, tiene quattro corsi, ha studiato in larga parte all’estero ed è sempre tornato in patria, lavora e non si lamenta eppure è italiano esattamente come l’impiegata delle Poste che nel frattempo si sarà fatta fasciare a scopo precauzionale il polso addebitando le spese mediche all’azienda quindi allo stato quindi alle tasse quindi a me. L’Italia, questa nazione controversa, alla fine vince e si qualifica.

lunedì 25 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Domenica 17 giugno

h 20:45 Danimarca-Germania e Portogallo-Olanda a Pavia
Quando meno me l’aspetto, facciamo a risultato conseguito con i tedeschi che sono riusciti a dissipare gli spettri di un pareggio poco dignitoso e con i loro biondi confinanti che stanno rimpiangendo il goal subito giorni prima a tempo scaduto contro il Portogallo senza il quale, secondo calcoli oltremodo complicati che esercito in scioltezza seduto sul materasso in mutande per il gran caldo, si sarebbero qualificati loro anziché i portoghesi medesimi, dicevo quando meno me l’aspetto e pare che la mia principale preoccupazione sia di stabilire more geometrico la portata dei rimpianti dei danesi, il che è tutto dire visto che della Danimarca me ne frego ben poco e anzi mi sta abbastanza antipatica dopo l’accidentale pareggio contro la Svezia che otto anni fa servì a entrambe per eliminare l’Italia secondo calcoli complicatissimi che qui nemmeno tento di riprodurre tanto non me li ricordo e che anzi mi spaventano in prospettiva visto che di similari e ancora più complicati bisognerà farne la sera successiva, di nuovo per l’Italia, con all’orizzonte un’altra eliminazione combinata con un pareggio fra contendenti estranee al campo in cui si gioca, dicevo cazzarola che quando meno me l’aspetto, sul materasso, in mutande, mi affiorano sulla res cogitans due pensieri. Il primo è: ma tutti questi calcoli di complicazione sesquipedale su goal fatti e goal subiti, classifica avulsa e differenza reti, non mi faranno mica male, e non saranno mica disdicevoli in un uomo di trentuno anni compiuti con annessa dignitosa pancetta? E poi, secondo pensiero: ma ci rendiamo conto che vent’anni addietro stavo guardando un’altra Danimarca-Germania, che fungeva da finale per la medesima competizione, e che tutti i giornali hanno tirato fuori con la retorica d’ordinanza ma come se fosse un affare risalente a infinito tempo addietro o un relitto dello spaziotempo mentre io la ricordo distintamente e come una cosa presente e viva, dalla quale non è passato tanto tempo, tutt’al più un ventennio piuttosto elastico? Allora ho lasciato perdere lo scorporo incrociato dei risultati delle due partite giocate in contemporanea davanti ai miei occhi e, ognora fiero delle mie mutande mi sono messo a ragionare che mica questi vent’anni mi sembrano corti perché ho interesse a mantenermi giovane mentre al contrario i giornali, essendo istituzioni impersonali che devono darsi un tono, tendono a dilatare i tempi per ascriversi una tradizione che conferisca autorevolezza alla testata; macché. In verità i vent’anni intercorsi fra una Danimarca-Germania e l’altra tendo ad accorciarli perché io sono rimasto sempre lo stesso mentre il mondo circostante è cambiato non poco rispetto all’estate della seconda media: il luogo dove vivo, la struttura della giornata, il cibo che riesco a digerire, le ore di sonno necessarie a risvegliarmi, l’attitudine ai libri, la vicinanza coi parenti, la necessità delle spese, tutto è cambiato a mia insaputa e all’altro capo del ventennio siamo rimasti in tre: Danimarca-Germania, i calcoli controfattuali per capire chi passa il turno e io, che darei non so cosa per poter precipitare da capo in un contesto di beata irresponsabilità, per poter tornare anche una settimana soltanto in seconda media, però col dottorato già in tasca.
Se avete tempo e passate in edicola, non necessariamente oggi ma anche più in là questa settimana entro giovedì al massimo, potete comprare il numero 25 di Tempi nel quale soppeso le biografie degli autori esordienti che sono stati pubblicati nel terzo numero dell'edizione italiana della rivista Granta e, fatti i necessari calcoli, dimostro more geometrico che in Italia per poter essere presi in considerazione come esordienti bisogna avere già esordito da qualche altra parte.

giovedì 21 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Sabato 16 giugno

h 20:45 Repubblica Ceca-Polonia e Grecia-Russia a Caldonazzo
Girellando fra le bancarelle del caseificio, dismesso e riattato, di Caldonazzo scopro che Claudio Gavioli ha pubblicato un nuovo romanzo (Gavioli è lì ma, modesto, non ha ritenuto opportuno rivelarlo) che s’intitola L’uomo solitario. La copertina è convincente – l’insegna di un dubbio fast food – però c’è qualcosa che mi sembra mancare dal titolo. L’aggettivo “solitario” mi è sempre parso un termine troppo banale, compiacente forse, per illustrare la solitudine; mi ricorda anche i giochi di carte con cui si ammazza il tempo e che secondo la vulgata di quel dì stabilivano se l’esecutore dovesse sposarsi o meno. Meglio sarebbe esprimere il concetto con un’azione icastica: uno dei versi più spaventosi della storia della musica non colta è l’attacco degli Iron Maiden in Fear of the Dark: “I am the man who walks alone”. Però in Inglese fa il suo effettaccio (potenza dei monosillabi) mentre in Italiano L’uomo che cammina da solo mi fa pensare a Portafoglio, un signore disgraziato che è il metronomo del centro storico di Gravina, e sono abbastanza sicuro che Gavioli non avesse intenzione di indurmi a tali associazioni. Forse L’uomo che vaga da solo? Non mi suona gran che anche perché vi colgo riferimenti a Melmoth the Wanderer, un romanzo di Charles Mathurin che ebbe l’indubbio merito di suggerire l’alias al vecchio e decaduto Oscar Wilde che, dopo la galera, si registrò in alcuni alberghi sotto il falso nome di Sebastien Melmoth; però siamo al tramonto del postmoderno quindi direi che è finita da un pezzo l’era della narrativa gotica. Non faccio in tempo a pensare a ulteriori alternative perché il trenino valsugano tocca Caldonazzo e i tre quarti d’ora di viaggio da Trento sono terminati: devo tornare in albergo, scrivere due cosette approfittando del tavolino sul balcone, comprare il quotidiano locale per inesausta curiosità del minimo, decidere come cenare e trovare un posto allegro per guardare la partita. I compagni di viaggio di Quasi Rete, coautori del libro ciclistico di cui sopra, sono ripartiti dopo pranzo tornando alle proprie case e famiglie; io, che al massimo mi aspetta il portinaio, ho deciso au contraire di trattenermi un’altra notte ancora suscitando scompiglio nell’alberghetto: “La faccio spostare subito in una matrimoniale”, argomenta il concierge a colazione, “così appena arriva sua moglie trova tutto pronto”. “Per favore, se arriva mi avvisi con un certo anticipo; non vorrei che risultasse troppo sorprendente”. Benissimo; risolto l’equivoco e congedati i partenti, sotto il contenuto sole del primo pomeriggio ho deciso di andare a Trento, che è una bellissima città, a prendere un caffè con l’ex fidanzata di cui sopra: mi sembrava maleducato arrivare così vicino e poi voltarmi indietro. Si rinnova il miracolo di Affi: nonostante che le mie visite in loco fossero piuttosto rade (una), appena arrivato alla stazione prendo la strada per il centro con una sicurezza tanto sorprendente quanto inutile visto che la signorina mi avverte che sta raggiungendo la stazione da tutt’altra strada. Rinculo e, sul treno di ritorno, oltre che al romanzo di Gavioli penso che siamo proprio persone ben civili se dopo, che so, tre o quattro anni ci siamo presi un caffè con cordiale imperturbabilità che potrei definire britannica, se non conoscessi davvero i britannici; e che almeno dalla mia metà questa imperturbabilità è sintomo non di compiuta educazione (un dito nel naso non si nega a nessuno) bensì di ingresso nell’età in cui i rimpianti per le cose che si potevano fare meglio cominciano a sovrastare le aspettative di saper farle effettivamente meglio in seguito (me l’ha detto perfino Moser): è, credo, una mera legge fisica connessa all’andare del tempo, così come una sfera posta su un piano inclinato rotola giù o una coppa grande un tanto non può contenere più liquido della sua capienza, e ciò che si continua a versare va sprecato. Pazienza: mi consolo con una pizza asiago e pere che non aiuterà la mia lotta alla dissenteria però almeno è buona, se non che necessita a quanto emerge di una lunga preparazione durante la quale sono costretto a smanacciare parossisticamente sul cellulare per darmi un tono, mando addirittura due messaggi a mia madre e poi mi metto a cancellare sistematicamente molte altre mittenti e destinatarie, senza per questo ingannare lo sguardo scettico di comitive e coppiette (siedo esattamente in mezzo al dehors). Qualche tavolo più in là, un tedesco coi calzini bianchi legge un libro che però non è il romanzo di Gavioli e nemmeno lo splendido Anticipi, posticipi che Francesco Savio ha scritto a quattro mani con me e che vi consiglio senz’altro come passatempo, erudizione e cimelio. In Inghilterra, quando vivevo lì, bar e ristoranti erano pieni di fregni buffi soli al tavolo con un libro fra le mani o un computer (immancabilmente Apple) davanti: secondo me accade perché mangiare serve alla conservazione ma la conservazione dell’individuo che non si accoppia né si associa costituisce un danno per la società, di modo tale che coppiette e comitive si mettano a guardarlo di malocchio e lui cerchi di difendersi col libro, col portatile, col cellulare, per dimostrare che nonostante l’evidenza anche lui è capace di attività e interrelazione, per quanto di genere meno immediato rispetto ai suoi simili. Per fortuna la pizza arriva e interrompe tali elucubrazioni ma io, temerario, alla fine voglio ordinare anche il dessert e, al notare che improvvisamente tutte le coppie e le compagnie che mi circondano (il tedesco dal calzino se n’è andato prima di finire il libro) sospendono il loro pasto,  lasciano cadere patatine, cucchiaini, tazzine da caffè, bicchieri di cognac e si chiedono muti però espliciti “Ma come, sta da solo e pretende di mangiare pure il dolce?”, mi accorgo che se Gavioli avesse voluto conferire una portata davvero intimidatoria al titolo del suo nuovo romanzo avrebbe dovuto intitolarlo, né più né meno, L’uomo che mangia da solo. Decido che la partita torno a guardarla in camera.

mercoledì 20 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Venerdì 15 giugno

h 18 Ucraina-Francia sulla A22 Modena-Brennero
Due eventi incredibili sono accaduti alla stazione di servizio di Affi: tre signore che fanno parte di una giuliva comitiva di attempate tedesche ordinano, anziché il tè delle cinque, un cappuccino e una birra media ciascuna. Non ho indagato sull’ordine secondo cui hanno consumato. Poi, dopo che io e i miei compagni di viaggio sulla tratta Lodi-Caldonazzo abbiamo depositato le nostre trattenute pipì, una volta ripartiti ci accorgiamo che nessuno ha controllato a che stazione di servizio ci fossimo fermati. Io azzardo “Affi” e di lì a dieci secondi un’indicazione dà ragione al mio timido bisillabo. Non l’avevo letta prima. È capitato che la mia antica inveterata abitudine di seguire, minorenne, i miei genitori nelle eroiche traversate dalla Puglia al Sudtirolo su un’Opel Corsa tuttora in possesso deve avermi dotato di un preconscio tale da consentirmi di riconoscere al volo ogni punto dell’A22, ogni curva dell’Adige, ogni campanile a cipolla, e indicare al volo: “Ala/Avio! Egna/Ora!”. Ho fatto due conti e non vedevo la A22 almeno dal 2005. È vero che un tempo avevo la fidanzata a Trento e qualche volta (una) sono andato a trovarla però, non disponendo di regolare patente, in treno. Né ho trascorso gli ultimi sette anni a pensare alla conformazione della stazione di servizio di Affi, tuttavia non escludo la seguente associazione d’idee: era proprio la stazione di servizio dove io e i miei ci fermavamo al primo sorgere dei monti e la coincidenza era troppo lampante all’istinto perché la memoria riuscisse ad affondarla. E ho anche la spiegazione razionale sottesa che spoglia la coincidenza di ogni riverbero metafisico, anche se lo so che siete romantici: Affi è la prima stazione di servizio dopo Verona e l’istinto di conservazione di chi sfreccia in autostrada e desidera arrivare (benché vivo) il prima possibile porta a concedere la pipì ai passeggeri solo dopo che si sia superata una città grossa, Verona in questo caso; non prima perché non si sa mai. Le montagne di contorno però non rassicurano, perché via via richiudono l’orizzonte, e arriva il punto in cui, verso lo svincolo di Trento Sud, il sole è ancora piuttosto alto e il cielo ancora bello azzurro ma noi ci ritroviamo in piena scuro perché una montagna ci fa da ombrellone. Una volta in albergo, le immagini del fortunale che vanno in onda al posto della partita rinviata rafforzano il senso di naturale precarietà che distilla ogni volontaria o coatta gita in montagna.

h 20:45 Svezia-Inghilterra a Caldonazzo
La vita è ingiusta perché per affiancare il filologo agonistico Gino Cervi e il brerologo anglofilo Andrea Maietti nel corso della presentazione di un libro corale a tema ciclistico nella prima serata del Trentino Book festival vengo scelto io, che mi trovo subito nell’imbarazzo di dover spiegare perché mai detto libro alberghi una mia unica frase su Francesco Moser, però lunga nove pagine, mentre per giunta al mio fianco siede il medesimo Francesco Moser che non a torto ha cessato di raccogliere più che meritati applausi e mi guarda con lo sguardo che significa appunto: già, perché? Allora io spiego che ho tentato di riprodurre stilisticamente, tramite un lunghissimo periodo che gira in circolo senza fermarsi mai e tramite la predilezione smaniosa per le virgole che perfino Alfieri si rimproverava con sarcasmo, la struttura del tentativo di record dell’ora che consta nel continuare a girare in tondo curvando sempre dallo stesso lato (le virgole) e non potendo fermarsi mai pena la rinunzia (il punto). Ad aggravare la mia posizione, il racconto si intitola, secondo un film di Dudley Moore del 1980, “Io, modestamente, Moser”. Sentendo che il punto interrogativo nello sguardo del campione va arricciandosi vieppiù, mi precipito a giustificare la mia morbosa predilezione per il ciclismo (oltre che per le virgole) che mi spinge a parlarne coram populo a 187 km in linea d’aria da casa mia invece di restarci comodamente a guardare la partita. Essa si fonda su due motivi: il primo non me lo ricordo; il secondo è che io non so andare in bicicletta (boato del pubblico) quindi i ciclisti più che campioni mi sembrano semidei. L’ultima metà della frase in verità si perde fra gli echi del boato e sbatte contro la domanda che Cervi sta per farmi – lo vedo con la coda dell’occhio mentre afferra il microfono e riesco a prevenirlo a dito puntato: “No, non riuscirai a convincere Moser a insegnarmi ad andare in bicicletta in una sera come fece Fausto Coppi con Alfonso Gatto”. Se non che Moser, da interrogativo fattosi esclamativo, all’improvviso se n’esce con un’àncora insperata, da uomo di poche parole; mi squadra, mi pondera e proferisce: “Ormai è tardi”. Il pubblico bofonchia mentre provo sincero sollievo; di tanto in tanto è bello scoprire che non c’è più tempo.

martedì 19 giugno 2012



Il diario intimo del'Europeo
Giovedì 14 giugno

h 18 Italia-Croazia a Pavia
Mio padre è una persona pacifica, che mi avrà dato qualche ceffone ma di sicuro necessario e non sufficiente; ciò nondimeno quando lo chiamo appositamente a fine partita mi avvedo che vuole menare Cesare Prandelli, se non altro perché ha sostituito Balotelli che non sarà il genero dei sogni però almeno corre, mentre ha tenuto in campo per ottanta minuti Antonio Casano che fino a qualche mese fa languiva in un letto d’ospedale, reparto cardiologia. Vorrei forse menarlo anch’io ma sono troppo debole per saperlo i preliminari trambusti di stomaco si sono scatenati nottetempo impedendomi di chiudere occhio (mi avrebbe casomai risvegliato lo sciacquone) e privandomi di gran parte delle forze di cui avrei avuto bisogno per trascorrere il secondo giorno con la famiglia Lansdale. Racconto cotali amenità per rispondere alla domanda retorica posta da Andrea Giglioli recensendo a scopo intimidatorio sul Corriere il diario scritto a otto mani da Bajani, Murgia, Nori e Vasta: “Non cacano, forse, gli scrittori?”. Io non lo so se sono scrittore, lo faccio troppo malvolentieri e mi pagano troppo poco, però caco di sicuro come quei due popolani che alla fine della marcetta della ronda di Scarpia nella Tosca di Luigi Magni, al sempre più minaccioso ritornello “Tremate lo stesso; cacatevi addosso” replicano con un chiasmo di mirabile understatement: “Tremamose addosso; cacamo lo stesso”. Dopo di che mio padre mi prescrive prosciutto crudo e una mela per cena; io eseguo e infatti trascorro una notte più serena, non fosse che alle sei meno cinque del mattino dopo mi sveglio con l’ardente desiderio di mangiare la testiera del letto, in antico ferro battuto.

h 20:45 Spagna-Eire a Pavia
Ora non so se ci siano stati degli italiani che veramente hanno guardato la partita sperando in un passo falso dei campioni del mondo o in uno scatto d’orgoglio dei rubizzi allievi di Trapattoni, che avrebbe neutralizzato le fesserie compiute dagli azzurri nel pomeriggio; se ce ne sono stati, vuol dire che gli italiani sono davvero capaci di tutto, anche di votare per Beppe Grillo. Io, che non vivo nel blu dipinto di blu, ho preferito guardare una rappresentazione scenica sperimentale di certi allievi della scuola di teatro del Fraschini, seduto ahimé sul fondo poiché lì il bagno era più a portata di ano: la scena del balcone di Romeo e Giulietta ripetuta varie volte secondo i crismi della commedia dell’arte: la prima era l’originale coi rampolli tragici di Montecchi e Capuleti, poi un millantatore e una smorfiosa, infine due vecchi che la scena del balcone dovevano recitarla seduti altrimenti cascavano e bisognava raccoglierli col cucchiaino. Gli attori erano sempre gli stessi e le parole grossomodo pure – “È l’oriente, e Giulietta il mio sole”; “Rinnega tuo padre”, “Non giurare sulla luna”; “Buonanotte” –; cambiavano solo contesti e toni. Be’, l’Italia gioca così: la prima partita la prende sul serio, pure troppo; alla seconda si presenta da fanfarona ma l’avversaria fa la smorfiosa e non si concede; alla terza e troppo tardi, si vorrebbe fare chissà cosa ma non ci si regge in piedi e non si dipende più esclusivamente dalle proprie forze. Buonanotte.

lunedì 18 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Mercoledì 13 giugno

h 18 Danimarca-Portogallo a Travacò Siccomario, Texas
Non c’è circostanza più distante da una competizione calcistica per squadre nazionali iscritte alla confederazione europea di dover rivolgere a Joe Lansdale una frase di circostanza in Inglese disinvolto come ad esempio “Sei stato fortunato, fino a ieri a Pavia minacciava pioggia mentre da oggi c’è il sole e fa caldo” e sentirsi rispondere: “Sì, è esattamente come in Texas”. Lansdale è arrivato a Pavia da Savona in automobile, camicia hawaiana e famiglia al seguito; quando ha aperto lo sportello ed è venuta fuori la figlia mi sono ricordato del ragazzotto inglese che in Love, Actually vuole andare in America convinto che gli basterà entrare in un qualsiasi bar di provincia per trovare ragazze bellissime a profusione; ci va, entra nel primo bar di provincia che trova ed effettivamente rinviene tre ragazze bellissime, perfettamente corrispondenti allo stereotipo che ognuno di noi ha della ragazza americana: capelli a posto, vestiti alla moda, alte, solari, fisico asciutto, denti perfetti. (Fra parentesi, quando conoscete una ragazza nuova smettete di fissarle le tette; i denti, bisogna guardarle, i denti e le orecchie: la riuscita è tutta scritta lì). Ah, e poi le tre ragazze lo invitano a casa propria e poco prima di spogliarsi lo avvertono che prima o poi tornerà la quarta coinquilina – dicono leggermente disgustate –, quella bella. Niente di tutto ciò accade tuttavia con la famiglia di Lansdale, che è molto simpatica e che accompagno pertanto a Travacò Siccomario a casa di una sua traduttrice. Nel corso dell’itinerario lungo il Ticino, appena superato il Ponte Coperto, allo scorgere tutti quegli alberi Lansdale non si trattiene e commenta: “È esattamente come in Texas”. Ora, va bene che ho vissuto (faccio il conto) otto anni a Pavia contro, non so, quattro giorni in Texas; va bene che c’era in ballo un’offerta di ricerca all’Harry Ransom Center che io volevo di tre mesi almeno e che ho nobilmente rifiutato perché volevano ridurla a uno soltanto; però sono abbastanza sicuro che quando andavo in giro per Austin non mi veniva altrettanto spontaneo considerare: “Ma guarda, è esattamente come a Pavia”; non è che quando attraversavo queste strade enormi con l’insegna verde e le strisce pedonali dipinte in verticale ponderassi fra me e me: “Però, avevo vissuto già otto anni in Texas e non me ne ero mai accorto”.

h 20:45 Germania-Olanda a Pavia
Andare di tanto in tanto – ogni dieci minuti o quarto d’ora – a guardare la partita in tv, controllare fulmineamente il risultato e poi tornare altrettanto fulmineamente nella sala dove Lansdale sta presentando il suo nuovo libro però trattenendomi nei paraggi perché comunque c’è troppa gente per poter entrare è la maniera migliore per dissimulare alcuni pensieri, tanto più che in senso stretto il mio compito (accoglierlo, accompagnarlo, parlare Inglese, non provarci con la figlia) può dirsi compiuto. Il primo di questi pensieri è che si è messo a piovere, esattamente come in Texas, dunque servire il drink di commiato all’aperto può rivelarsi controproducente. Il secondo è che a pranzo devo avere mangiato qualcosa che mi ha fatto male, perché nonostante Lansdale in maniera coriacea resista io ho iniziato a contorcermi fra atroci spasmi che non stanno bene in società. Il terzo è che non sia mai la figlia voglia poi unirsi a una comitiva per andare a bere qualcosa nottetempo (vorrà) e per intrinseca gentilezza mi inviti (mi inviterà). Il quarto è che prima di Lansdale avevo organizzato vari incontri con autori nello stesso luogo e i risultati erano stati differenti, con picchi massimi di quasi trentacinque persone per un commovente pubblico discorso di Paolo Nori. Da Lansdale ce ne sono circa centosettanta, stando alle teste che sono riuscito a contare dal fondo sala, ma non è questi il calcolo che m’inquieta; è che i 71.000 abitanti di Pavia sembrano mobilitarsi in massa solo per occasioni scelte a caso senza che su ciò eserciti il minimo influsso la campagna stampa (per non parlare della presa sul grande pubblico che ha la Provincia Pavese: una volta per errore avevano annunciato l’intervento di Antonio Pascale per il giorno prima a quello vero, allora arrivato il giorno sbagliato ero andato a scusarmi coi lettori della Provincia e dir loro che l’effettivo appuntamento era per l’indomani ma non è venuto nessuno) né l’effettiva qualità di ciò che si propone. A Modena, invece, potevi organizzarci la conferenza in francese di uno studioso di induismo (non è un esempio a vanvera) e la sala sarebbe stata piena esattamente come in ogni altra occasione; sarà forse qualcosa che mettono nel Lambrusco.

domenica 17 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Martedì 12 giugno

h 20:45 Polonia-Russia a Pavia
C’è dunque questa réclame di una serie televisiva che si terrà in un vago prossimamente dai contorni piuttosto minacciosi e che io sulle prime credevo essere una raffinata presa in giro, intendendo il Final Countdown degli Europe sulle immagini di un degente barbutissimo che si sveglia e come se niente fosse si alza per presentarsi di lì a mezzo minuto, sbarbato, con addosso un chiodo e una sigaretta accesa in pieno ospedale. La voce narrante spiega intanto che si tratta del commissario non so chi, il quale dopo vent’anni di coma s’è svegliato e torna immediatamente operativo benché convinto ancora di trovarsi – beato lui – all’alba degli anni ’90: la serie si intitola The Last Cop, L’Ultimo Sbirro. La partita della sera ne rivela alfine l’identità segreta: trattasi di Fulvio Collovati, storica voce tecnica della Rai dalla trascinante simpatia; Fulvio Collovati, l’ultima guardia rossa che può permettersi in diretta in prima serata su Rai1 di andare a caccia di sinonimi chiamando un buon paio di volte i russi sovietici, come se si fosse appena svegliato dal coma, come se volesse blandire quelli come me convinti a priori che si stava meglio quando si stava peggio. Meglio di lui solo Alberto Rimedio, che la sorte ha voluto cronista nel corso della medesima partita: è talmente entusiasta di quest’Europeo da mettersi a chiamarlo Mondiale. Io sono un uomo attento alle parole e questi dettagli riescono a scuotermi dalla rêverie su cui mi ero mollemente adagiato al suono dei nomi dei beniamini polacchi: c’è Fabianski, c’è Komorowski, c’è Wasilewski e c’è Mierzejewski, ci sono Polanski, Murawski, il grande Lewandowski e l’ancor più grande Blaszczykowski. Io, per motivi che non sto a dire, a Oxford mi ero abituato a queste assonanze e mi sembra di essere precipitato nella geniale scena iniziale di Vogliamo vivere, il film più divertente mai girato sul nazismo, ed era il 1942; di più, mi pare che le voci di Alberto “Mundial” Rimedio e di Fulvio “Ottobre Rosso” Collovati si trasformino via via in quella ignota ma familiarissima di Giuseppe Gioachino Belli il quale il 3 gennaio 1835, improvvidamente invitato a recitare un sonetto d’occasione a casa di certi esotici nobili inurbati che si chiamavano Wolkonski, s’alzò dal desco declamando: “Sor Artezza Zzenaida Vorcoschi, / perché lei me vo’ esporre a ’sti du’ rischi: / o che ggnisun cristiano me capischi / o me capischi troppo e mme conoschi? // La mia musa è de casa Miseroschi, / dunque come volete che ffinischi? / Io ggià lo vedo che finisce a ffischi / si la scampo dar zugo de li boschi. // Artezza mia, noantri romaneschi / nun zapemo addoprà ttermini truschi, / comm’e lei per esempio e’r zor Viaseschi. // Basta, coraggio! e nnaschi quer che naschi. / Sia che sse sia, s’abbuschi o nun z’abbuschi, / finarmente poi semo ommini maschi”.

sabato 16 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Martedì 12 giugno

h 18 Grecia-Repubblica Ceca a Pavia
Sono un fenomeno paranormale, con tutta la modestia dell’evidenza, stanti taluni episodi che hanno caratterizzato la parziale visione del derby fra le derelitte del gruppo A. Tanto per cominciare, dopo avere lavorato alacremente per tutto il pomeriggio sull’ammirevole Histoire du Portugal contenant les entreprises, navigations et gestes mémorables des Portugallois depuis l’an 1496 jusques à l’an 1578 di Jeronymo Osorio e Fernão Lopes de Castaneda col miraggio che a fine lavoro sarei uscito di camera e sarei andato a godermi il sole che splendeva del tutto ignaro dell’esistenza dei portoghesi (o portogallesi) di ogni tempo, ecco che appena ma letteralmente appena avevo scritto l’ultima noterella a Osorio e Castaneda (i Gurrado e Savio dei tempi di Magellano), ecco dunque che appena distolgo i polpastrelli dalla tastiera il cielo si oscura, nerissimo, i tuoni iniziano a minacciare che se solo mi azzardo a far uscire la punta del naso viene giù il finimondo. Rinunzio. Mi connetto al sito della Rai, mi collego alla diretta della partita e giacché sto faccio uno squillo a casa che significa: sono in camera, chiamatemi quando vi pare. Subito mia madre esegue, alzo la cornetta e sento una voce di donna dal marcato accento barese che mi chiama: “Mi senti? Grazia, mi senti? Come chi sono? Sono mamma! Grazia?”. Ora va bene gli pseudonimi ma i più intuitivi di voi avranno dedotto che non mi chiamo Grazia; né mia madre ha per fortuna un accento simile. Niente da fare, si sente solo l’interferenza. Mi rassegno a guardare la partita – già sul 2-0 per i rossi – quando mi accorgo che sul lato dello schermo è possibile cliccare in determinati punti per rivedere le azioni precedenti. Eseguo per capire come hanno segnato i cechi ed ecco che mirabilmente tutto funziona alla perfezione, il segmento differito della partita si incastona a mio piacimento nel corso della diretta, niente sbalzi, niente salti di linea, niente “riconnessione al server in corso” né “il contenuto da lei richiesto non è disponibile”. Fatto sta che il tempo di vedere in differita i due goal della Cechia ed ecco che la Grecia ha segnato in diretta ma io me la sono persa. È accaduto che a propiziare l’accorcio sia stata una frittata dell’affidabile Peter Cech, un po’ come se dall’oggi al domani la crisi dell’euro risultasse dovuta all’economia tedesca. Vabbe’, ma mentre sto guardando la differita della diretta che ho mancato per guardare la differita squilla nuovamente il telefono ed ecco che non è né mia madre né la madre di Grazia bensì un’interlocutrice che mi propone di andare a mangiare del sushi – il sushi, a me, questo resta l’evento più inspiegabile della giornata.

venerdì 15 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Lunedì 11 giugno

h 18 Francia-Inghilterra a Pavia
Francia e Inghilterra sono le due patrie ideali del mio intelletto: perché ho vissuto per anni a Oxford e lavoro su Voltaire, perché mi pagano apposta per scrivere note in inglese sotto testi in francese, perché mi viene da ridere se al pub mi servono al tavolo e sotto la torre Eiffel mi emoziono come se l’avessi fatta io, perché ho preso varie volte il treno sotto la Manica senza attacchi di claustrofobia, perché la prima primissima volta all’aeroporto Charles De Gaulle cercavo di spiegarmi con l’ufficio informazioni in Inglese, mica in Italiano, e perché l’ultima volta che avevo trascorso una settimana a Parigi ero finito a dire “merci bien” al rivenditore di Cornish pastries non essendomi accorto che nel frattempo ero arrivato alla stazione di Paddington. Meno male che un’amica semplice ma che deve volermi bene mi ha fatto rinsavire con una considerazione che potrei riassumere in cotal guisa: uagliò, ma quale patria e patria, tu puoi andare e venire dall’Inghilterra alla Francia tutte le volte che ti pare ma resti sempre di Gravina in Puglia; ma quale intelletto e intelletto, fammi il piacere, vola più basso. Sante parole. Ho guardato il calendario dell’Europeo, ho distolto l’attenzione dalla fatale partita d’oltremanica e ho considerato con ben maggiore modestia: stasera c’è Ucraina-Svezia, due delle patrie ideali del mio –

h 20:45 Ucraina-Svezia a Pavia
Mi sono spiegato, spero. Di conseguenza, giunta l’ora, ho indossato la mia camicia migliore nonché unica pulita e sono uscito forte del seguente ragionamento: Pavia è una città giovane, dinamica, internazionale; la sua università la rende un luogo irripetibile, crocevia di infinite culture europee; di sicuro nelle sue strade, nelle sue piazze, nelle sue borgate si riverseranno frotte di ucraine e di svedesi vogliose di guardare la partita; io mi piazzo, la guardo anch’io e se vince l’Ucraina abbraccio un’ucraina, se vince la Svezia abbraccio una svedese e se dovessero pareggiare le abbraccio tutt’e due. Dovete sapere che le svedesi esistono veramente: io ne vidi una, una volta, in biblioteca a Oxford; era bionda, inevitabilmente, sembrava scolpita dal Michelangelo delle Barbie ed era convinta di essere bruttarella; stava cercando di contare quante volte Voltaire avesse utilizzato una determinata parola (a Oxford si studia così) e le avevo dato una mano. Sono uscito da casa dunque, ho percorso tutta Strada Nuova, sono passato dal Duomo e poi da Piazza Vittoria con questo prototipo ben chiaro in mente ma non ho scorto nulla di simile. Per giunta, avevo dimenticato il portafoglio in camera, ergo per offrirmi qualcosa da bere e giustificare la mia presenza al bar avrei dovuto far commercio del mio corpo. In giro solo una o due classi per la pizza di fine anno scolastico coi professori, e qua e là qualche maschietto solo, dall’occhio vispo e dal passo incerto: gente convinta che Pavia è una città giovane, dinamica, internazionale, gente convinta che basti uscire a fare due passi per ciularsi un’ucraina o una svedese. Sono tornato in camera e me la sono guardata seduto contro la testiera del letto, mentre fuori faceva buio, dopo avere controllato che il portafoglio fosse effettivamente lì.

giovedì 14 giugno 2012



Il diario intimo dell'Europeo
Domenica 10 giugno

h 18 Spagna-Italia a Milano
Mia madre mi critica perché vado al cinema da solo, al teatro pure, e talvolta perfino al fiume a prendere un po’ di fresco. Io ribatto che è la maniera migliore per organizzarsi, visto che tendo a trovare un rapido accordo con me stesso mentre non altrettanto capita in condizioni differenti. Per fugare ogni dubbio, mi sono concesso l’onere inverso della prova e ho accettato di guardare la partita co un paio di amici a seguito di invito piuttosto improvvisato, o quanto meno vago. Ad aggravare le cose, uno di loro era una donna quindi non aveva dato per scontato che incontrarsi intorno all’orario della partita implicasse guardarla. L’appuntamento è da lei e si dipana così: mezz’ora prima della partita le viene illustrata la nostra intenzione di guardarla, quindi lei dice di preferire una passeggiata, allora noi le offriamo di fare una passeggiata fino al posto in cui avremmo guardato la partita, se non che lei ribatte a sorpresa proponendoci di guardarla a casa sua, noi però siamo dei galantuomini e ci siamo impegnati a fare la passeggiata quindi non potremmo mai accettare la sua proposta che per noi è pure la più vantaggiosa (sagacia delle donne); insistiamo cavallerescamente per la passeggiata ma con una certa solerzia poiché il tempo stringe, altrettanto cavallerescamente lei insiste per restare in casa, molto meno cavallerescamente la costringiamo a togliersi la tutina e a vestirsi per la passeggiata, usciamo quando mancano dieci minuti scarsi al fischio d’inizio, andiamo al primo bar ed è chiuso, andiamo al secondo ed è parimenti chiuso, inoltre quando siamo arrivati a un punto abbastanza distante da casa sua da non consentire di tornarci senza perdere l’inizio della partita inizia immancabilmente a piovere, lei sostiene che voleva guardare la partita, noi che volevamo fare la passeggiata, dopo di che prendo in mano la situazione e decido unilateralmente che invece di continuare a girare in tondo per tutta Zara ci conviene entrare nel primo bar che troviamo aperto altrimenti compio una strage e poi invoco tutte le attenuanti del caso. Esso risulta essere un bar gestito da cinesi i cui avventori sono così ripartiti: noialtri; un ragazzo peruviano che tifa con eccessiva foga per l’Italia assieme a un papà peruviano che altamente se ne frega; un signore che orna la propria sessantina con una camicia a fiori tanto allegra quanto terrea è la sua espressione, che non è variata nemmeno quando di fianco a lui una coppietta ha tentato arditamente di riprodursi sulla sedia in un tripudio di patatine volanti; detta coppietta; uno schifoso che per merenda ha bevuto quattro birre e mangiato due toast, forse tre; una famigliola con mamma tatuata e figlie pure che a un dato punto si mette a giocare a scala quaranta. Subito si abbatte su di loro la barista, convinta che stiano giocando d’azzardo, che li persuade a smettere: ormai siamo in piena follia giustizialista, e quando negli spogliatoi Napolitano s’è abbracciato Buffon poco c’è mancato che non lo arrestassero per direttissima per concorso esterno in tabaccheria estrema.

h 20:45 Eire-Croazia a Pavia
Ogni volta che vedo il figlio di Savio, o anche solo ci penso, mi assale la voglia irrefrenabile di fare un bambino con la prima che passa, e questo potrebbe condurmi in galera. In compenso domenica ho pranzato in famiglia con sei bambini di età compresa fra i sette e i tre anni (ero l’unico scompagnato) e inaspettatamente codesto desiderio s’è liquefatto: nel mio futuro non vedo più il sole a scacchi. A ciò si aggiunga che s’è verificato un lieve errore di calcolo riguardo al dessert: mia cugina aveva deciso di fare un bel tiramisù per sedici persone, perché tanti eravamo; mia zia intanto, non volendo oberare d’incombenze sua figlia, aveva preparato in gran segreto un tiramisù per sedici persone, e siamo a trentadue; mentre mio zio era passato davanti al proprio gelataio preferito, nella cui stracciatella si rinvengono pezzi di cioccolato che sono un’arma impropria, e aveva preso una vaschetta variegata per sedici, e siamo a quarantotto. Io al mattino avevo perlustrato Pavia alla ricerca di un omaggio per non presentarmi con le mani in mano: stanco dei soliti giocattolini per i bimbi, delle banali bottiglie di Sangue di Giuda, peggio ancora dei libri che fanno rimpiangere l’analfabetismo, avevo optato per una bella torta tipica, la Pavesa. Essa consta di un’armatura in pastafrolla dentro la quale giace un corpo di pasta di mandorla impreziosita qua e là con uvetta, mentre su tutto cala una coltre di cioccolato fondente così che per tagliarlo ci vuole la scimitarra. Serve dieci persone, e siamo a cinquantotto, ma per non far vedere che pensavo solamente agli adulti avevo arrotondato con un vassoietto di paste piuttosto grosse, dodici in tutto: e siamo a settanta. Questo spiega perché alla sera mi sento un po’ pieno e decido di guardare Eire-Croazia in piedi nel gabbiotto del portinaio, per far defluire il tutto di fronte al televisore portatile, ma vedendo il raddoppio dei croati, su palo di un attaccante ribadito in rete da un colpo di testa dello sbadato portiere irlandese, non mi trattengo e chiedo al portinaio: “Senti, non è che ti va una mezza pizza margherita con un filo filo d’olio e origano sparso? Sarà tutto questo sport che mi fa venire fame”.
Buongiorno, è uscito il nuovo libro collettivo di em bycicleta, il presidio di fabulazione sportiva che sul blog letterario della Gazzetta dello Sport Quasi Rete racconta gli eventi agonistici di ieri oggi e domani senza tralignare dalle più elementari norme della grammatica e della sintassi. Si chiama Io sto qui e aspetto Bartali (sottotitolo: "17 storie di fughe, curve, dolomiti e paracarri"); l'editore è il trentino Curcu & Genovese e la prefazione è dell'irsutissimo Gianni Mura. Fra le firme noterete varie vecchie conoscenze quali Gianni Bertoli, Gino Cervi, Stefano Corsi, Emiliano Fabbri, Stefano Fregonese, Claudio Gavioli, Andrea Maietti, Carlo Martinelli, Valerio Migliorini, Claudio Sanfilippo e Francesco Savio. Ci sono anch'io, modestamente, che per l'occasione ho scritto una frase su Francesco Moser, però lunga nove pagine.


Io sto qui e aspetto Bartali sarà presentato in anteprima al Trentino Book Festival di Caldonazzo domani venerdì 15 giugno alle ore 21. Ci sarò io, ci saranno molti degli altri autori, dovrebbe esserci anche Francesco Moser.

mercoledì 13 giugno 2012


Il diario intimo dell'Europeo
Sabato 9 giugno

h 18 Olanda-Danimarca a Milano
Mi chiedo cosa sia successo a Vincenzo D’Amico se, nonostante lo spiegamento di forze profuso dalla Rai, non è riuscito ad arrivare a Charkiv in tempo per la telecronaca, lasciando il povero Gianni Bezzi in balia di sé stesso: privo dell’autorevole commento tecnico, il cronista s’ingarbuglia e chiama Danimarca l’Olanda e Olanda la Danimarca, confondendo i giocatori al punto da far effettivamente vincere i prevedibili sconfitti. Io, invece, da Pavia a Milano una comodità, ora che hanno allungato il passante S13: esco di camera alle quattro e mezza, cammino fino alla stazione, salgo nel primo treno che scorgo, scendo a Rogoredo, prendo la linea gialla fino a Duomo e poi la rossa in gran scioltezza così da trovarmi alle sei in punto seduto sulla poltrona di casa Savio, dopo essere sceso a una fermata che non posso rivelare per non consegnarlo al fatale abbraccio delle ammiratrici; è sposato, ha un figlio piccolo, lasciatelo perdere. Un tragitto geometrico e pulito come l’azione che porta al decisivo vantaggio danese, segnato dal noto gourmet Khron-Deli, al quale Gianni Bezzi non perdona l’assenza di D’Amico, insistendo fino a fine gara su un goal nato da un fortunoso rimpallo che ha visto, mi pare, solamente lui.

h 20:45 Germania-Portogallo a Rogoredo
Mi rendo conto di avere glissato su cosa sia il basso continuo che ho lasciato cadere incidentalmente nel corso della cronaca di come non vidi la partita di venerdì sera, in maniera tale da far supporre che io lo sapessi perfettamente. Macché. Da quello che ho dedotto ascoltando il concerto di Varzi mentre la Russia faceva alla Repubblica Ceca, in sedicesimo, ciò che l’Unione Sovietica aveva fatto in grande stile alla Cecoslovacchia, il basso continuo si è quattro o cinque musicisti che armeggiano su strumenti il cui suono si estende sulle zone basse del pentagramma mentre la melodia è affidata alla sola voce del soprano o del controtenore. Bon, ne deduco che da qui al primo luglio l’Europeo sarà il basso continuo dell’esistenza comune a tutti, sul quale ognuno di noi sarà libero di variare come meglio crede la propria melodia individuale, che resterà ancorata a schemi fissi benché, come avveniva nella musica barocca, intrinsecamente imprevedibili. Tanta poesia per significare che alla stazione di Rogoredo, mentre attendevo il treno del ritorno a tarda sera di fianco a una signorina che sulla panchina di ghisa si truccava in maniera sospetta, mi ero accorto di essermi dimenticato la partita serale, non avendo ancora interiorizzato il serrato ritmo che questi primi giorni ci impongono. Ecco tuttavia il basso continuo che riemerge: avevo sì accidentalmente dimenticato che c’era la partita ma una ben radicata parte della mia corteccia cerebrale non aveva dimenticato che gira e rigira, se ci fosse mai stata una partita da qualche parte del globo, con ogni verosimiglianza l’avrebbero vinta i tedeschi; e infatti. 

martedì 12 giugno 2012


Il diario intimo dell'Europeo
Venerdì 8 giugno

h 18 Polonia-Grecia sulla Strada Provinciale 1
Per un curioso incidente del destino, nel momento esatto in cui l’automobile – una Ka grigia affetta da timidezza patologica, che quando la si parcheggia in mezzo ad altre macchine sembra nascondersi e scomparire per quant’è piccola – esce dall’agro pavese per imboccare l’Oltrepo, ecco che un sole altrettanto timido si affaccia sull’asfalto e mi ricorda tre cose. La prima è che è giugno, che nonostante il grigio cupo che aveva sovrastato il centro di Pavia fino a che non ero partito le giornate sono già così lunghe che quando uno si aspetta il tramonto può ancora scoprire un inatteso splendore. La seconda è che sta per iniziare l’Euro 2012 e che a differenza di non so quanti italiani per mia precisa e consapevole scelta non sarò seduto in poltrona o sul divano a guardare il primo calcio d’inizio. Donde un caleidoscopio di partite inaugurali che risalgono via via nel tempo addietro, segnandone le tappe con indefettibile regolarità: la Germania-Costarica dei Mondiali 2006 vista a casa di Gerardo e Clemente nell’arsura modenese, la Portogallo-Grecia nel pigro pomeriggio di un sabato elettorale, la Francia-Senegal precipitata da Seul a Pavia mentre da una parte era buio e dall’altra brillava il dopopranzo, e poi ancora la Brasile-Scozia vista coi manuali della maturità ancora aperti sul tavolo della cucina, la Germania-Bolivia sbirciata in un ristorante di non ricordo dove con non ricordo chi, la Svezia-Francia in onore della quale mi ero addirittura ritirato anzitempo dalle ultime e stanche lezioni di seconda media, fino – mentre la Ka si arrampica sui colli – all’Argentina-Camerun vista con papà in salotto quando ancora forse lui era più interessato di me. Insomma la vita andrà pure avanti ma per ogni passo che azzarda nel futuro prende una rincorsa sempre più lunga, finché non le manca il fiato: e con questa fanno due. La terza cosa che l’ombra di sole ha provveduto a ricordarmi è che non ho idea di che fine abbiano fatto Gerardo e Clemente, di sicuro non abitano più lì.


h 20:45 Russia-Repubblica Ceca a Varzi
Savio mi comunica il risultato della partita pomeridiana mentre sto mangiando una quantità indiscriminata di salumi sotto un torracchione medievale di fianco a una parrocchia lungo il fianco della quale una mano democratica ha scritto RESISTENZA, raro esempio di libero Stato in libera chiesa; poi mi rende partecipe della propria trepidante attesa per la partita della sera, e per indorarla la chiama col suo nome primigenio, Unione Sovietica-Cecoslovacchia. Vuol farmi patire che non la guarderò, sostituendola con un concerto di musica barocca in una cornice resa ancora più suggestiva dall’evenienza che, al termine di uno struggente Stabat Mater per basso continuo e soprano sola, frammezzo il pubblico risuonerà il trillo di un anonimo cellulare che, su una scala che va da drin a Waka Waka, risulta molto più vicino a quest’ultimo estremo. Non posso ancora saperlo, però, e devo affrettarmi a esaurire il salume perché non voglio arrivare in ritardo; se non che strada facendo verso la Pieve dei Cappuccini mi assale il desiderio di qualcosa di dolce e quando mi accade io so che divento intrattabile, se non mi accontento subito capace che m’innervosisco, tengo il broncio ingiustificato e poi piglio a ceffoni sia il proprietario della suoneria ridondante sia magari l’incolpevole soprano. Entro dunque nell’unico luogo che sembri offrire soddisfazione ai miei bisogni, un bar appiccicato a una stazione Esso dov’è rimasto un ultimo cornetto dal primo mattino, che fagocito considerando l’ambiente circostante: alla mia destra, sui tavolini esterni, una vasta scelta di braccia rubate ai lavori forzati; dietro di me la Russia che attacca e di cui faccio anche in tempo a vedere il primo goal; davanti a me l’esuberante barista vestita in maniera ancor più esuberante per fidelizzare la clientela ma non me medesimo, ché si vede lontano tre miglia che sono di passaggio. Le chiedo anche un bicchier d’acqua calcolando a occhio che gli abitanti di Varzi sono sette e li ho incontrati tutti nel breve volgere di una passeggiata. Il concerto sta per iniziare, detesto arrivare in ritardo ragion per cui mi affretto a pagare il dovuto; lei batte il solo cornetto e quando le chiedo cosa le devo per l’acqua, mi lancia una risposta che manco ne Gli Spietati: “Va’ con Dio”. E io vado.

sabato 9 giugno 2012

Michela Marzano predilige il modello sessuale di David Herbert Lawrence, un po’ cupo in verità, nel quale “ognuno esce dall’ambito del controllo dell’altro, ognuno si compromette con il proprio corpo e accetta la sfida del giudizio della società”. Ecco, sembra proprio che chi si toglie i vestiti debba per forza indossare un’armatura in vista di una sfida sociale o politica che potrà sì entusiasmare un guardacaccia ma che rende del tutto antierotico l’atto sessuale, trasformandolo in rancoroso sabotaggio e dotandolo di un baricentro esterno che non ha nulla a che spartire col sesso. Lawrence poi sosteneva che il sesso andasse purificato delle “funzioni escrementizie” che lo rendono pornografico, e che fosse quest’igiene a caratterizzare “l’essere umano realmente sano”. È un po’ come propugnare che è realmente sano colui che mangia al solo scopo di lavarsi i denti.

Volevo scrivere una breve recensione a La fine del desiderio: riflessioni sulla pornografia di Michela Marzano (Mondadori) ma mi sono lasciato prendere la mano e ne è sortita un'intemerata di quindicimila caratteri in cui spiego perché fra una filosofa femminista e un'attrice porno ho le idee piuttosto chiare su chi scegliere: è un paginone sulla fine dell'arcobaleno, il rifiuto del paradigma dell'insostituibilità, le fascette dei dvd zozzi, la penetrazione tra virgolette, la divisa di Ibrahimovic, la timidezza del maschio, l'influsso di Jessica Rizzo sulla cinematografia giapponese, i giorni necessari alla polizia per fermare una donna che va in giro con un pene mozzato in mano, lo sconforto che segue ogni rapporto, l'unica possibile realizzazione di una democrazia compiuta, la certificazione plastica che l'uomo non può giocare a fare Dio, la vita sentimentale di Julia Roberts, il senso del possesso e il desiderio di annullamento. C'è pure una foto di Nicole Kidman tutta nuda. Basta comprare il Foglio in edicola oggi.

giovedì 7 giugno 2012

Sarà che ero lì quando si sono distintamente avvertite entrambe le scosse più violente, ma il terremoto l’ho capito meglio dal quotidiano massese che dai giornaloni nazionali, talvolta troppo impegnati a seguire la retorica o la polemica, che avevo infilato nella stessa mazzetta. Unico appunto: l’edicola più vicina alla mia residenza era a un quarto d’ora di distanza a piedi, segno che a Marina di Massa la gente o non ama affatto informarsi o ama oltremodo il trekking suburbano.

Su Qwerty il giornale che recensisco oggi è l'edizione di Massa e Carrara de Il Tirreno: un occhio locale sugli eventi globali, raffinatissime pagine di cultura, notizie di cronaca in differita di due anni e settantasette accompagnatrici settantasette.
Non so se mi inviteranno mai a parlare a un convegno intitolato, che so, "L'editoria ai tempi di facebook"; a ogni buon conto ho già preparato il mio intervento, che vi trascrivo.

Buongiorno. Tema: "Settantacinque ricette tradizionali presentate a colpi di mouse". Svolgimento: "In un'epoca in cui la cucina va di moda e in tv impazzano i programmi che insegnano a cucinare, siamo tutti diventati esperti, gastronomi, cuochi, fini mangiatori. Di cucina si parla ovunque. Ma a ben pensarci, quale luogo è più indicato di facebook per commentare le ricette, illustrarle, e soprattutto condividere? Assaggiarle in modo virtuale ma convincente? Questo è l'esperimento che ci propone Elena Loewenthal. Raccontare le 'sue' ricette, non nuove e neppure esclusive, anzi magari antiche, alla maniera di facebook, con i commenti degli amici. Perché la sua cucina è per l'appunto comunicativa. Una cucina espansiva, generosa, di ingredienti e porzioni, che non lascia nei commensali nemmeno un'ombra di fame. Per tutti coloro che cominciano a detestare le spennellate di salsina e il verbo 'impiattare', ma apprezzano scodelle fumanti e zuppiere, Il mio piatto forte sarà una piacevole sorpresa. Antico e moderno a tavola: una cucina nuova a dispetto dello 'chefstarsystem'. Con un'indispensabile punta d'ironia". Abbiamo trasmesso la quarta di copertina de Il mio piatto forte, di Elena Loewenthal, Einaudi editore, anno 2012, 186 pagine, 12 euri. In copertina un peperone, una melanzana, ortaggi vari e una bottiglia coricata. Ci tengo a specificare che io personalmente non ho nulla contro l'editore o l'autrice, né tampoco contro il cibo per quanto non digerisca più peperoni e melanzane. Mi chiedo ciò nondimeno, con un'indispensabile punta d'ironia, in modo virtuale ma convincente, se dal 1933 al 1999 Giulio Einaudi sia vissuto per questo. Grazie. Arrivederci.

lunedì 4 giugno 2012

Poniamo che qualche giorno fa un violento terremoto avesse squassato il Norfolk, o lo Shropshire, o il Dorset. Ho l'impressione che per questo non un'imbarcazione in meno avrebbe solcato il Tamigi ieri, né un minuto sarebbe stato sottratto alle celebrazioni per il giubileo di diamante di Elisabetta II, regina da sessant'anni. Le ragioni per le quali non si sarebbe rimpicciolito il giubileo risiedono proprio nella cifra tonda, segno che la stessa persona è stata seduta nello stesso posto dal 1952 in poi, mentre la Gran Bretagna cambiava, si evolveva, con ogni probabilità degenerava e di sicuro, passando attraverso momenti gloriosi e dolorosi, si ritrovava a non essere più la stessa nazione all'altro capo del sessantennio, non fosse stato per la continua e costante presenza della sovrana che ne garantiva l'identità  e rassicurava magari il suo popolo così che non si sentisse troppo trasportato dalle belle novità né troppo avvilito da quelle brutte. Il tempo passava e lei stava là, questo è tutto: era la personificazione dello schema kantiano che ci permette di dire che un cane è lo stesso sia quando ne vediamo arrivare il muso sia quando, un minuto dopo, vediamo la coda allontanarsi all'orizzonte. Si può preferire un re a un altro, si può criticare l'operato di un monarca, si può perfino essere stravaganti al punto di dichiararsi repubblicani come Cherie Blair ma non si può non ammettere che, in quanto regina, Elisabetta ha sigillato la continuità della Gran Bretagna in un mondo che si trasformava (e il suo regno con esso); e risalendo su per una complicata scala di discendenze e tradizioni l'ha mantenuta collegata alla Regina Vittoria, alla Gloriosa Rivoluzione, a Enrico VIII, alla battaglia di Hastings e forse perfino ad Atelstano, che mille e settantacinque anni fa da re del Wessex, un pezzo oggi e un pezzo domani, si fece re d'Inghilterra. A cosa ci fa risalire la festa della repubblica, a De Nicola? Quando il governo britannico deve rendere noto il programma per l'anno a venire il discorso del primo ministro viene letto solennemente dalla Regina e non si chiama The Prime Minister's Speech ma The Queen's Speech. Non so se questo renda la Gran Bretagna una nazione antiquata, fatto sta che da noi, quando ha dovuto spiegare le proprie intenzioni, Mario Monti è dovuto andare da Bruno Vespa. Mentre la seconda guerra mondiale prometteva nel migliore dei casi il bombardamento delle città britanniche e nel peggiore l'invasione dei tedeschi, Giorgio VI padre di Elisabetta è entrato nella mitologia anche antimonarchica per avere prodotto lo slogan perfetto per l'animo dei suoi sudditi: "Keep calm and carry on". Ho il sospetto che durante la parata del due giugno Napolitano non avrebbe mai potuto dire agli emiliani "State calmi e andate avanti" perché chissà cos'avrebbe risposto Beppe Grillo o Di Pietro. In Europa ci sono grandi monarchie come la Gran Bretagna, la Spagna, la Svezia, i Paesi Bassi. Se ieri perfino Enrico Palandri arrivava a scrivere sull'Unità (sull'Unità, sull'U-ni-tà, mica sul Borbonico Compiuto) che talvolta anche in Italia si avverte la carenza di un potere simile, forse s'è fatta ora anche per noi prima che si sfasci tutto indipendentemente dai terremoti. L'importante è stare calmi e la repubblica non aiuta.

sabato 2 giugno 2012

Se gli Italiani si limitassero a essere stupidi si vivrebbe tranquilli in questo Paese, magari utilizzando Carlo Maria Cipolla e Fruttero & Lucentini come armi di basilare difesa; invece siamo un popolo estroso, che tende a strafare, incapace di essere stupido senza presumere di essere oltremodo intelligente. Ad esempio, all'improvviso tutti hanno capito che l'unica maniera per risolvere i guai causati dal sisma in Emilia fosse cancellare la parata militare di oggi a Roma, e hanno iniziato a parlarne con l'aria saputa di congiurati consapevoli di essere vittime di un complotto in cui magari c'entrava qualcosa anche il Papa in trasferta a Milano. Io sarò più stupido di loro ma non ho capito alcune cosette.

1) Non vedo i vantaggi economici della cancellazione. Presumo che le parate militari vengano pagate con soldi stanziati in anticipo; non è che a parata conclusa arriva un generale e presenta il conto a Napolitano. Mica siamo in pizzeria. Caso mai avrebbe potuto avere senso decidere di devolvere ai terremotati gli stanziamenti per la parata dell'anno venturo, con la complicazione che l'1 giugno 2013, all'annuncio che la tradizionale parata del giorno seguente non avrà luogo, gli stessi italiani si sarebbero chiesti increduli: "Quale terremoto?" - e magari avrebbero pure protestato.

2) Non vedo i vantaggi psicologici della cancellazione. Nessuno più dei militari ha a che fare quotidianamente con l'idea di morte e di conseguenza le loro parate tutto sono tranne che delle gran feste. Sono un misto fra la commemorazione dei commilitoni morti e la riunione in assetto solenne per fare quadrato e rassicurarsi di fronte all'evenienza di fare la stessa fine. Non credo che la sfilata di migliaia di uomini con una parte del cervello costantemente dedicata al lutto possa offendere il dolore per i morti emiliani. Possono tutt'al più dare l'esempio.

3) Non vedo i vantaggi politici della cancellazione. Fra le poche cose che tengono in piedi una nazione c'è la certezza che determinate cose permangono costanti nonostante le contrarietà: si chiamano istituzioni e hanno un valore simbolico che permette di non sentirsi imprigionati nelle avversità del quotidiano. Cancellare la parata avrebbe significato dichiarare la sconfitta, l'impotenza; avrebbe veicolato ai terremotati il messaggio: "Noi non possiamo fare niente di positivo per voi perché il terremoto ci ha annichiliti". Sarebbe stata anche, temo, una dichiarazione ipocrita, un fare i drammatici con le tragedie degli altri. Sarebbe stata soprattutto l'ammissione del cupio dissolvi più disfattista, come a dire che lo Stato - già pericolante - s'è squagliato del tutto e quindi non ci si può aspettare niente di niente.

Ecco, i ragionamenti degli italiani sono talmente fallaci che io monarchico mi sono ridotto a dover difendere la festa della repubblica; ora dovrò come minimo ascoltare settanta volte sette la Marcia Reale per riavermi.