lunedì 4 febbraio 2013

Finalmente domenica!
Ventitreesima giornata, 3 febbraio 2013

Ieri pomeriggio ho fatto un salto a casa di Savio ed è emerso che il gioco preferito di Pietro è l’incidente sul tavolo da pranzo: si prende una macchinina di legno, la si scaglia contro una mucca di plastica e si fa la Manzotin. Il vantaggio dell’avere un anno di età è che di ogni atto non si prende in considerazione il contesto, ossia, nello specifico, l’evenienza che la mucca sia più grande dell’automobile, che le vetture non siano prodotte in legno e che i bovini non siano abitualmente di plastica. “Invece”, dico a Pietro che mi ascolta attonito, “da una certa età in poi il contesto diventa un guaio: hai visto la confessione choc di Lance Armstrong? In Italia è andata in onda su Dmax, la rete che trasmette perle come NYInk, in cui ci si mena mentre una bionda si fa tatuare una tigre punk, oppure Lavori Sporchi, con ampio risalto alla figura del raccoglitore di sterco, oppure Il Tempo dei Dinosauri, col sito della rete che avverte: ‘Non è il solito documentario ma un tuffo epico nella vita dei dinosauri. Tenete la clava a portata di mano’.

“Dunque, Pietruzzo bello, l’intervista di Oprah Winfrey non andava vista né come giornalismo né come documentario bensì come tuffo epico nella vita del ciclista texano. A ciò contribuiva il doppiaggio, perfetto pendant della scenografia: un salotto con le tendine in broccato e i bicchieri sul tavolino, in cui ogni oggetto era lì dove l’avrebbe disposto un arredatore timoroso di farsi notare, e che rivelava la propria sconfortante falsità ogni volta che l’inquadratura si allargava a comprendere panoramicamente le quinte, i cameraman e l’attrezzatura necessaria allo show. In questo teatrino dei pupi Oprah e Armstrong dialogavano sì in americano, ma le loro voci erano sopraffatte da quelle impostate e avvolgenti dei doppiatori, che ne rincorrevano le pause, riproducendo qualsiasi singulto o squittio potesse trasparire dal diverbio, mentre Oprah si sporgeva verso l’ospite per incalzarlo e lui si mordeva il labbro con le lacrime agli occhi. Un doppiaggio da soap opera non immemore delle telenovelas del Trio Solenghi-Marchesini-Lopez (te le ricordi, Pietro?), con Alonso Gilberto Jimenez Perito Peraria e il tormentone ‘bisogna fare qualcosa’ e i colpi sul tavolo che si sentivano un secondo dopo essere stati battuti. La voce roca di Oprah veniva resa con toni squillanti da dattilografa del Midwest, mentre Armstrong somigliava vieppiù a Mike Delfino, il cattivo buono di Desperate Housewives, l’ex spacciatore ex assassino ex galeotto che a colpi di pettorali dimostra di essere l’unico ceffo affidabile di tutta Wisteria Lane”.

Sconvolto dalle mie rivelazioni, Pietro ha seduta stante inventato un utilizzo alternativo della collana Scrittori Italiani e Stranieri della Mondadori: bisogna togliere la sovracoperta, operazione mica facile se si ha un anno e le manine grandi quanto petali di fiori, e salire in ginocchio sulla copertina rigida, che in effetti non si vede a cos’altro serva.

“D’altronde, Peter, l’operazione riabilitativa di Armstrong – mi scuso, un po’ piagnucolo, un po’ faccio il bullo e la mia coscienza ne riemerge candida – è fallita proprio per l’inverosimiglianza del contesto; per la commovente incompetenza ciclistica di Oprah (te la vedi, Pietro, a guardare con noi la Coppa Bernocchi su RaiSport2?) resa ancor più drastica dalla traduzione frettolosa dei termini tecnici e da una doppiatrice che s’impegnava a sbagliare sempre la pronuncia del nome Hincapie, del tutto incurante che Auro Bulbarelli l’avesse fatto risuonare sugli schermi nazionali per quindici anni buoni. Ecco, uno guardava il salotto farlocco di Oprah e capiva che la colpa di Armstrong era di non avere mai avuto niente a che fare col ciclismo, che è sport di scabro realismo. Sicuramente ricordi l’abbronzatura da muratore di Eddy Merckx che piangeva sul letto a Savona dopo essere risultato positivo al Giro del ’69, o la maglia grigia girocollo di Pantani a Madonna di Campiglio dopo avere appreso dell’esclusione dalla corsa rosa trent’anni dopo: sono dettagli pasoliniani che non ti sono parsi indossati apposta per l’occasione, no? Erano lì perché erano veri. Armstrong invece, prestato al ciclismo dal triathlon, ossessionato dal merchandising del colore giallo, capace di vincere più Tour di quanti fosse umanamente possibile ma di fatto null’altro, ricorda tutt’al più William F. Cody, in arte Buffalo Bill: che nel 1894, al Trotter di Milano, volle sfidare cavallo contro bicicletta il velocista-panettiere Romolo Buni. Avrebbero corso per tre ore vedendo chi copriva la distanza maggiore, in una gara che non aveva niente a che fare col ciclismo vero. Vinse Buffalo Bill per tre chilometri, ma solo perché cambiò dieci cavalli stremandoli mentre Buni disponeva di una e una sola bicicletta: quella con cui andava al forno ogni notte.”

Pietro, che ora è capace di stare in piedi per quasi quattro secondi prima di cascarsi sulle ginocchia pur conservando un notevole aplomb, si è avvicinato a porgermi un cubetto nero di legno perfettamente levigato che, misteri dell’infanzia, è uno dei suoi giocattoli preferiti, quasi quanto la mucca investita. Allora ho capito che era troppo presto per rivelargli la trista verità, ossia che mentre Armstrong stava seduto sulla poltrona di Oprah, per quanto sulle spine, Pantani si trovava tre metri sotto terra, e questa è la principale differenza fra i destini di due uomini.

[Il resto della rubrica, a opera di Francesco Savio, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]