lunedì 13 maggio 2013


Finalmente domenica!
Trentasettesima giornata, 12 maggio 2013

Stamattina, trovandomi ospite in casa di amici, in bagno ho visto una bilancia e non ho resistito: trattandosi di una di quelle bilance moderne, accattivanti, digitali, che con la loro stessa sottigliezza sembrano promettere il dimagrimento dell’utente, appena uscito dalla doccia mi sono avvicinato e saltatoci sopra ho atteso che le cifre sul display si stabilizzassero. Dopo di che mi sono stupito, mi sono rivestito condecentemente e ho pensato quanto segue.

Il peso del corpo è un guaio che ci portiamo addosso dalla nascita – non per niente di un neonato la prima cosa che si chiede è quanto pesi, la seconda è se respiri ancora – perché in maniera più o meno newtoniana dà la misura del nostro inevitabile ancoramento al terreno. Anche quando ci sentiamo presuntuosi e riteniamo che sopra di noi non ci sia nessuno (perché abbiamo avuto la promozione, l’aumento, la macchina nuova o l’amante di zecca) il solo fatto di avere un corpo ci limita entro confini angusti che possiamo voler violare quanto ci pare ma sempre lì sono, insormontabili. Anche se fossimo dittatori del mondo, basterebbe un’unghia incarnita a precipitarci nell’abisso. Il corpo è un ammasso di peccati e malattie, di peli, nei, verruche, ferite, muscoli indolenziti, sporcizia dentro e fuori che solo il Cattolicesimo può benedire. Da piccoli siamo prigionieri del corpo in cui vogliamo crescere e cerchiamo di superarne i confini; da adolescenti siamo prigionieri del corpo che crescendo si deturpa e non ci piace perché non piace agli altri; da giovinotti siamo prigionieri del corpo che ci impedisce di mangiare, bere, ballare e scopare a oltranza, perché a un certo punto non ce la fa più e dice basta; da adulti siamo prigionieri del terrore che i capelli inizino a cadere, che la pancia si dilati, che i fianchi si allarghino, che le rughe spuntino, e di non essere più in grado di compiere con estremo sforzo ciò che a diciassette anni facevamo senza accorgercene; da vecchi, nel migliore dei casi, siamo il sostegno delle nostre vene varicose; da malati non ne parliamo; perfino da morti ci sarà la risurrezione della carne, anche se per fortuna il Vangelo ci assicura che non si prenderà né moglie né marito ma saremo come angeli nel cielo.

Diceva Proust che siamo condannati a trascorrere tutta la vita incatenati a un estraneo, che è appunto il corpo; o forse lo diceva Pascal; o forse non lo diceva nessuno dei due ma è come se l’avessero detto, perché basta citarli per ottenere assensi da tutti quelli che non li hanno letti ma sono convinti che avrebbero dovuto farlo. Di sicuro (non lo dice Proust né Pascal ma lo dico io) siamo tutti condannati a fare la cacca, e di conseguenza siamo condannati a nutrirci, e di conseguenza a lavorare, e di conseguenza a ricoprire un ruolo sociale con tutte le conseguenti implicazioni, forzature e delusioni. Quando guardiamo il Giro d’Italia ci entusiasmiamo per i grandi scalatori perché sfidano la forza di gravità salendo repentini verso l’alto lì dove tutti gli altri rotolerebbero verso il basso; e ci entusiasmiamo per i cronometristi perché filano veloci fendendo l’aria che respingerebbe chiunque avesse un filo di grasso e non indossasse il casco aerodinamico.

Io non so andare in bicicletta quindi non oso né fendere l’aria né scalare montagne. L’anno scorso di questi tempi tuttavia mi ero trovato pesante oltre il limite della decenza, 84 chili di pane perduto, e avevo deciso di abbatterne qualcuno eliminando le porzioni più assassine dalla dieta e soprattutto montando a giorni alterni su uno strumento che chiamerei cyclette per ignoranza di termini ulteriori ma che era uno strumento a pedali senza ruote moderno, accattivante e digitale che con la sua stessa snellezza sembrava promettere il dimagrimento della vittima. Regolavo percorsi che simulavano salite, discese e mezza costa e intanto che pedalavo, quando i quadricipiti dolevano e il cuore m’implorava, pensavo: questa pedalata è perché salendo due piani di scale mi viene l’affanno; questa perché a letto sono costretto a inventarmi sorprendenti diversivi per dissimulare il fiatone; questa perché il completo elegante non mi contiene più l’ombelico; questa perché dieci anni fa pesavo 62 chili; questa perché dopo morti non ci metteremo più a dieta ma saremo come angeli nel cielo. Quelli scalavano il Mortirolo e io pedalavo nella palestra immobile, sentendomi ridicolo perché in cravatta faccio miglior figura che in pantaloncini; sudando e bestemmiando perché perdevo tempo avevo tirato avanti per un paio di mesi e a luglio, pesatomi, ecco che constavo di 77 chili.

Io ambisco a essere un paio di occhi alati ma, calcolato il rapporto fra il sudore che avevo emesso e i grammi di cui mi ero disfatto, avevo deciso che sette chili in due mesi bastassero ed ero andato al mare a stare sdraiato per tre settimane. Poi sono stato seduto a scrivere e a leggere per nove mesi. Poi ho mangiato come un porco. Poi non ho avuto tempo per tornare in palestra. Poi hanno aperto nuovi ristoranti, nuove enoteche, nuove gelaterie. Poi, incomprensibilmente, sono tornato ad avere l’affanno quando salivo due piani di scale. Eppure, mi sono detto nel bagno dei miei amici, questa bilancia che è sotto di me mi assicura con asettica oggettività che, nonostante la mia impressione di essere enorme e inchiavardato al suolo e condannato a portare a spasso me stesso quando mi lascerei volentieri a casa, nonostante tutto questo peso esattamente quanto pesavo a luglio dello scorso anno dopo tanta fatica e tanto sudore, dopo l’impegno ossessionante di accanirmi su quelle parti del mio corpo che potevano essere disciolte. Anzi, meno: 76 chili e 600 grammi, nudo come un verme dopo la doccia; lo dice la bilancia digitale, sottile e accattivante.

Allora l’esercizio fisico è una mitologia illusoria, il peso del corpo è una variabile indipendente dalla nostra volontà esattamente come la morte o il funzionamento dello smartphone. Tutto contento della mia scoperta ne ragguaglio i miei ospiti raggiungendoli dabbasso. “Ah, la bilancia?”, reagiscono: “Guarda che è starata, bisogna aggiungere una decina di chili”. Oggi i ciclisti attraversano l’Italia mentre io guardo la cyclette e non ho il coraggio, non ho la forza.

[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio tratta l'acquisto di una barca con una bambina di nove anni, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]