lunedì 3 marzo 2014

Tutte le reazioni all'Oscar de La grande bellezza sono sbagliate. Sbagliano i detrattori snob che hanno iniziato a parlar male del film solo dopo che è stato premiato. Sbagliano i detrattori benaltristi i quali ritengono che lo spirito del cinema italiano contemporaneo sarebbe stato rappresentato meglio da ben altri film, magari di nicchia, magari addirittura di Emma Dante. Sbagliano i patrioti disfattisti irritati dal fatto che Paolo Sorrentino esporti un'immagine negativa dell'Italia come Saviano e i suoi gomorroidi. Sbaglia chiunque non riconosca che il film è noiosetto e Sorrentino sa fare di meglio ma anche che l'operazione Oscar è stata condotta in maniera  magistrale, a tavolino.

Anzitutto si è scelto un titolo-marchio che unisce due parole italiane di vasta risonanza simbolica ma facilmente comprensibili agli anglofoni. Inoltre è stato (spero) consapevolmente deciso di non rendere troppo sfaccettati e verosimili i personaggi che fanno corona a Jep Gambardella così da venire incontro alle limitate capacità intellettive d'oltreoceano, dove non è che abbiano tutto questo tempo o voglia di correr dietro alle sottili mattane della nostra classe intellettuale. Giuseppe Tornatore aveva vinto l'Oscar con Nuovo cinema paradiso tagliando cinquanta minuti della versione italiana per renderla internazionale; Sorrentino l'ha vinto tagliando l'iceberg e mostrando solo la punta, lasciando che il resto sembrasse sottinteso anche se non c'era: in entrambi i casi, in un modo o nell'altro, il film è andato in onda in versione ridotta per venire incontro alla giuria dell'Academy. Infine, con grande sagacia, è stato dato agli americani e più in generale agli stranieri ciò che all'estero si aspettano di sentirsi dire sull'Italia; impacchettato però in una confezione grondante intellettualismo, addomesticato a sua volta in modo tale da convincerli di essere davvero stati spettatori partecipi di un alto esercizio cerebrale. Mutuando i termini di Umberto Eco, la bravura di Sorrentino è stata di risultare integrato fingendosi apocalittico.

Sbagliano gli adulatori snob che esultano perché finalmente è stata premiata l'Italia che vale: non si accorgono che una nazione è una nazione, si prende tutta intera come viene nel bene o nel male e non al self service. Sbagliano gli adulatori benaltristi che si complimentano con regista e cast specificando tuttavia che "in queste ore dobbiamo pensare ad altro e lo stiamo facendo" (scusa, Matteo, lo sai che ti voglio bene lo stesso). Sbagliano soprattutto i patrioti della ventitreesima ora che scoprono l'improvviso orgoglio di essere italiani perché uno di noi ha finalmente combinato qualcosa, anche se loro no. Mi ricordano quelli che nel '69 dicevano sussiegosi "Ora che siamo andati sulla Luna...", ciò che secondo Gianni Brera era esattamente come dire: "Ora che abbiamo composto la sesta sinfonia, detta Pastorale...". La loro esultanza mattutina sui social network mi ha fatto sentire, per la prima volta in vita mia, fiero di essere vissuto in Inghilterra; mi ha anche fatto capire che certi giorni gli Italiani sono così provinciali da essere disposti a credere a tutto. Perfino che, se solo la Bonino fosse rimasta ministro degli Esteri, Putin non si sarebbe mai azzardato.