lunedì 7 luglio 2014

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Una domenica mattina un anglicano abitudinario e un cattolico curioso si ritrovarono seduti di fianco durante una funzione nella cappella di una scuola di teologia allineata con le posizioni più conservatrici della Chiesa d’Inghilterra e non troppo distante dal centro di Oxford. Stavano sperimentando entrambi simultaneamente quel filo di noia e sonnolenza durante le prediche che lega le loro religioni così differenti quando entrambi furono scossi da un brivido sentendo il celebrante dichiarare con estrema chiarezza che, di tutti coloro che vivevano in Gran Bretagna, il novantacinque per cento sarebbe finito all’inferno. Per quanto l’Inghilterra vada considerata la patria della ragione, avendo dato i natali a John Locke, neanche lì si usa mettersi a questionare alzando la mano durante il sermone per chiedere al celebrante di ripetere o di spiegarsi meglio e nemmeno per esprimere una protesta più o meno composta. Il cattolico e l’anglicano dovettero dunque attendere l’uscita per iniziare a discutere fra loro sul senso da darsi alla sortita del reverendo, perché sono sempre le parole più inequivocabili a causare le diatribe più lunghe.

“Io mi reputo un liberale – esordì l’anglicano – e ritengo inaccettabile che si spiattelli così apertamente che sia sbagliato ciò che un’amplissima maggioranza di persone sta facendo. Questo per tre motivi: sia perché è da veri maleducati, sia perché se tutti si comportano allo stesso modo allora è compito di un’istituzione adeguarsi agli individui e non viceversa, sia perché il principio sul quale la nostra civiltà inglese si regge da secoli è quello del never explain, never complain: ossia che per non sentirsi in dovere di spiegare ciò che si sta facendo non ci si deve sentire in diritto di lamentarsi di ciò che fanno gli altri”. “Mi permetto di dissentire – rispose il cattolico – in quanto mi documento. Il pronostico del celebrante di oggi in realtà non è farina del suo sacco quindi non può essere ascritto alla sua maleducazione individuale o a un estemporaneo tralignamento dalla linea della Chiesa d’Inghilterra. Le stesse identiche parole erano state pronunciate nell’ottobre 2006 dal molto reverendo dottor Richard Turnbull, rettore della Wycliffe Hall di Oxford, più anglicano della Regina, leggendo in una occasione formale un discorso scritto e pertanto, si presume, meditato su dati di fatto concreti e sillogismi cogenti”.

“Non ritieni tuttavia – disse l’anglicano – che per quanto autorevole un teologo non abbia diritto di condannare quasi tutti gli inglesi all’inferno?” “Mica li condanna lui – rispose il cattolico – sono loro che a suo dire si condannano da soli. Mi sembra inoltre che sia infingardo suggerire l’idea che, se qualcuno fa del male, la colpa è di chi glielo fa notare. Infine ho accidentalmente in tasca il testo del discorso del reverendo Turnbull: lo leggiamo per capire cos’ha detto di preciso?” “Leggiamo” – disse l’anglicano rassegnato.

Il molto reverendo dottor Richard Turnbull, intervenendo al raduno annuale del gruppo anglicano conservatore nominato Reform, aveva dichiarato non mancando di destare un certo scandalo: “Il nostro impegno consiste nel recare la lieta novella del messaggio di Gesù Cristo a coloro che non lo conoscono, e costoro sono il novantacinque per cento delle persone: novantacinque persone su cento che rischiano di finire all’inferno se non portiamo loro il messaggio del Vangelo”.

“Vedi dunque”, continuò il cattolico riponendo le fotocopie, “che rispetto ai titoli dei giornali che sbraitano di un reverendo pazzo che vuole mandare gli inglesi all’inferno bisogna fare qualche distinguo. Anzitutto lui mira a evitarne la dannazione, non è che goda a immaginarli avvolti dalle fiamme eterne. Soprattutto però assume su di sé la responsabilità e dice che il proprio dovere, nonché quello dei suoi colleghi, è portare il Vangelo a coloro che stanno per essere dannati: lascia intendere che, se rinuncerà a evangelizzare l’Inghilterra, anche lui verrà posto di fronte alla propria colpa”. “Vedi però”, irruppe l’anglicano, “che stimare un novantacinque per cento di britannici pronto per la dannazione è eccessivo. Lo dimostrano i numeri: ho accidentalmente in tasca i risultati del censimento del 2011: li controlliamo per capire se il reverendo Turnbull ha esagerato?” “Controlliamo” – disse il cattolico rassegnato.

Nel 2011 il 26% dei britannici s’è dichiarato ateo, il 7 di religione indefinita, l’8 di religione varia (islamici, induisti, sikh, ebrei, buddisti e adepti della religione Yedi). Il restante 59% si è dichiarato cristiano. Secondo le statistiche, il rev. Turnbull condanna dunque all’inferno tutti gli atei, gli indifferenti, i non cristiani e grossomodo nove cristiani su dieci.

“Ne consegue che condanna – concluse l’anglicano – ortodossi, pentecostali, battisti, metodisti, presbiteriani, i cattolici come te e anche una buona parte degli anglicani, me compreso probabilmente. Dunque ha sbagliato i suoi calcoli.” “Perché mai? – rispose il cattolico – Questo è il solito vizio di voi protestanti, se mi permetti, che tracciate una riga e decidete che chi sta da un lato sia sempre nel giusto e chi sta dall’altro sia sempre nel torto. Ti pare scandaloso che il reverendo Turnbull abbia lasciato intendere che anche i membri della Chiesa d’Inghilterra possano essere dannati; mi pare invece sorprendente che abbia lasciato intendere altre cose ben più gravi e meno evidenti a un occhio superficiale”.

Sintetizzando, il cattolico spiegò che prima ancora che con le diverse affiliazioni religiose il reverendo Turnbull ce l’aveva con una disposizione d’animo. Quando si parte per evangelizzare una nazione lontana non si va lì con l’intenzione di insegnare tutti i dettagli della dottrina ma di far capire che la vita ha un piano verticale oltre a quello orizzontale, e che oltre a una direzione ha un senso. Il caso voleva che l’Inghilterra fosse una nazione molto vicina a Wycliffe Hall; ma non per questo era meno da evangelizzare, in quanto non sono i chilometri da percorrere a fabbricare le periferie. Prendiamo Oxford i particolare: si sente e forse è il centro assoluto dell’istruzione e della cultura mondiale, tanto da averlo scritto con estrema modestia perfino sul cartello di benvenuto alla stazione. Per coltivare la propria centralità si è concentrata sul proprio ombelico al punto da diventare un mondo a sé stante, chiuso e impermeabile, tutto ripiegato nell’autoreferenzialità e per questo staccato dal senso: perché il senso delle cose arriva dall’interconnessione, dalla consapevolezza della relatività, non dall’assolutismo della presunzione. Per mancanza di una dimensione verticale ha voluto eccedere nell’appiattirsi sull’orizzontalità, credendo che una ben precisa direzione bastasse a dare un senso.

Ha mantenuto sul proprio stemma il motto cristiano Dominus illuminatio mea ma l’ha trasformato in un marchio commerciale. Ha imposto la neutralizzazione del calendario cristiano, trasformando gli auguri di Natale in un vago merry festivities, in modo tale da non offendere musulmani soprattutto e non cristiani in generale: sono pur sempre clienti, che pagano per andare a studiare lì e anzi pagano più degli altri. Si è venduta al principio che tutto debba essere indifferentemente in vendita e che tutto possa essere a disposizione di chi può permetterselo. Se da St Giles’ uno sale verso nord, nel cuore vittoriano della città uno trova una teoria di chiese le più disparate: quella dei domenicani, la casa di pietà anglo-cattolica intitolata a Edward Pusey, il centro d’incontro della Società Religiosa degli Amici che ha fatto incidere fra parentesi sulla targhetta d’ingresso la scritta “quaccheri”, il futuribile portone trasparente della Prima Chiesa di Cristo Scienziato e la parrocchia di St Aloysius dove ancora si segue il messale latino di Pio V; tutte frammiste a una caffetteria pseudofrancese, un giornalaio pakistano, un ceramista con vasca da bagno in vetrina e un ristorante dove un tè costa cinque sterline.

La perifericità di Oxford sta nel ritenere di non avere bisogno di null’altro e che basti trasformare una strada in un distributore automatico di chiese per mettersi la coscienza a posto in materia di religione. Come la vasca da bagno nella vetrina del ceramista, come il tè nel ristorante costoso, Dio è in vendita nelle sue molteplici accezioni, ciascuna col pacchetto preordinato per venire incontro alle esigenze di ciascun cliente; così tutti sono tranquilli perché convinti che se in Inghilterra ci fosse una sola religione sarebbe tirannica, se ce ne fossero due si scannerebbero a vicenda, mentre essendocene una trentina allora vivono in pace e felici. E come chi ordina il tè lo consuma e non ci pensa più, come una volta compratala non si passano le giornate a riflettere sulla vasca da bagno, così Dio sminuzzato e reso disponibile alla bisogna diventa merce e resta imprigionato in un mondo in cui formalmente non si può denunciarne l’assenza: perché c’è, si vede, ci sono le sue chiese, ci sono tre inglesi su quattro che si dichiarano fedeli di una qualche religione e perché gli atei, grazie ai barbini metodi di propaganda di un Richard Dawkins, non guadagnano tutto il terreno che la situazione di smottamento spirituale consentirebbe loro.

Però in questo contesto completamente orizzontale, su cento persone quante avranno conservato un senso vivo di Dio? Non cinquanta, non venti, forse nemmeno dieci; magari saranno cinque, e allora non ha proprio tutti i torti il molto reverendo dottor Richard Turnbull quando ammonisce che alle altre novantacinque bisogna tornare a predicare il Vangelo affinché non dimentichino di star precipitando all’inferno.

Alla fine del sermoncino l’anglicano diede ragione al cattolico: non era affatto persuaso però era ben educato. Congedandosi volle chiedergli un’ultima cosa: “Pensi dunque che sia il caso di andare a Wycliffe Hall per parlarne con lo stesso rev. Turnbull?” “Oh – rispose il cattolico – lo hanno silurato nel 2012. Adesso farà un altro mestiere”.