giovedì 16 luglio 2015

Questa settimana è iniziato (e per certi versi è già finito) il vero Tour de France, quello con salite mitologiche quali il Tourmalet di ieri o Plateau de Beille oggi. Chi però sostiene che guardare il ciclismo sia noioso, perché per ore e ore non accade niente e poi all'improvviso la corsa si rivoluziona incomprensibilmente nel momento esatto in cui sei andato a prendere qualcosa dal frigorifero, sbaglia in quanto non considera che il fascino di una gara a tappe sta nel basso continuo, nel sottofondo di storia e digressione che accompagna lo svolgersi della trama e la lenta attesa che qualcosa accada. Il ciclismo è Tristram Shandy. Ieri, ad esempio, vi siete persi i due cronisti Rai - Francesco Pancani e Silvio Martinello - che dopo ore di narrazione disquisivano sui collant per uomini e su cosa pensino le mucche; vi pare niente? Ve lo immaginate durante una partita di calcio? O durante un romanzo? Non ci sarebbe tempo. Guardare la corsa è come buttare l'occhio in un microscopio: si coglie un agitarsi non sempre immediatamente interpretabile, che acquisisce forma e coerenza solo dopo qualche tempo e non necessariamente a fine tappa. Io, per esempio, sto iniziando adesso a capire i Tour di venticinque anni fa; per questo ripesco qui a mo' di lettura estiva gli annali che avevo pubblicato su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport per raccontare come il miglior ciclista della mia infanzia (tranne uno) sia riuscito nell'impresa di non indossare nemmeno per un giorno quella stessa maglia gialla che ha avuto più di un portatore forse indegno, o almeno sorprendente; si tratta di cinque puntate che avevo intitolato

Le Tour, jamais

La differenza fondamentale che intercorreva fra Gianni Bugno e Claudio Chiappucci era che Bugno era come il gentiluomo che s’incravattava e si preparava in ogni dettaglio per inginocchiarsi davanti a una donna, con tutto il rischio che magari costei gli rifiutasse l’anello; Chiappucci era come il gentiluomo che tocca il culo a tutte tanto prima o poi qualcuna ci sta. Quando arrivano al Tour del 1990, il momento sembra d’oro per entrambi: al Giro d’Italia Chiappucci ha vinto la maglia verde di miglior scalatore da semisconosciuto gregario nella Carrera di Flavio Giupponi mentre Bugno ha vinto il Giro in carrozza, con sei minuti e mezzo di vantaggio su Charly Mottet, indossando la maglia rosa dal prologo di Bari alla passerella di Milano e, per soprammercato, anche quella ciclamino del meglio piazzato nelle tappe. Il favorito del Tour 1990 è il campione uscente Greg Lemond, l’americano che inventò la prassi di correre solo in Francia e a luglio, e di tanto in tanto impegnarsi per il Mondiale agostano, rimediando cospicue figuracce al Giro: a Milano, mentre il timido Bugno veniva costretto dai compagni di squadra a indossare corona ed ermellino regali, Lemond contemplava un mesto centocinquesimo posto.

La corsa gialla non è un obiettivo impossibile. Al prologo di Futuroscope, tuttavia, Bugno cede i primi 17” a Lemond; recuperabilissimi, non fosse che accade l’imprevedibile. Il giorno dopo, ad appena 6 km dalla partenza di Futuroscope, Claudio Chiappucci rende storica una tappa insignificante, anzi una semitappa, andando in fuga con Steve Bauer, Frans Maassen e Roman Pensec. La fuga raggiunge un vantaggio massimo di 13’ e nessuno si organizza per riacchiapparla, in quanto dopo pranzo è prevista una cronosquadre e sforzarsi al mattino significa sfaldarsi al pomeriggio, nella seconda semitappa. I quattro arrivano al traguardo, sempre a Futuroscope, con più di dieci minuti di vantaggio sul gruppo; vice Maassen, Bauer indossa la maglia e un’Italia impigrita dalle vacanze scopre un nuovo modo per riempire i pomeriggi, oltre alle ultime curve di Italia 90: l’assalto al Tour di Claudio Chiappucci, scalatore sottovalutato, un quarto di secolo dopo la vittoria di Felice Gimondi.

La corsa salta. Una settimana dopo, alla vigilia della crono di Epinal, Chiappucci ha un minuto di ritardo dalla maglia gialla e nove di vantaggio su Lemond, che in 61 km non riesce a dargli più di un mezzo minuto; Gianni Bugno invece fa il suo dovere e arriva terzo, staccato di una ventina di secondi da un promettente specialista del contre-la-montre che si chiama Miguel Indurain, gregario di Pedro Delgado detto Perico. La scalata di Chiappucci continua. Alla decima tappa, sul Monte Bianco, è secondo dietro la nuova maglia gialla Pensec; il giorno dopo Bugno vince  allo sprint su Lemond all’Alpe d’Huez. Sembra che ci siano due corse in una: davanti il regolamento di conti fra i protagonisti della fuga bidone di Futuroscope e dietro la sfida fra il vincitore del Giro e quello del Tour, segnati dal gravame del tempo perso nella famigerata semitappa; la  classifica vede infatti Chiappucci secondo a 1’28”, Lemond terzo a 9’04”, Bugno quinto a 10’39”. Per Bugno la situazione è paradossale. Ha vinto una tappa storica, se la gioca alla pari col detentore e, se non ci fossero quei due col vantaggio da misurare con la sveglia anziché col cronometro di precisione, la maglia gialla sarebbe a portata di mano al costo di un po’ di coraggio. Dal 1975 non l’ha indossata nessun italiano; l’ultimo è stato Francesco Moser.

Il giorno dopo altra cronometro, a Villard-de-Lans, con un chilometraggio più umano: solo 33 km. Vince Breukink; Indurain arriva terzo dietro al proprio capitano Perico Delgado; Lemond è quinto a 56” ma non riesce a darne che 9 a un Chiappucci galvanizzato fino al parossismo. E Bugno? Disperso. Paga lo sforzo dell’Alpe d’Huez, paga il distacco dal rivale casinista, paga la prospettiva di una maglia che si avvicina beffarda al corridore più diverso da lui e perde 2’42”. Peggio, solo Pensec: dopo Breukink sale quindi sul podio per indossare la maglia gialla Claudio Chiappucci. Sa che di lì in poi sarà un’erosione. Dato per scontato il progressivo tracollo di Pensec, secondo a 1’17” e chiamato in Francia per fungere da gregario nella squadra di Lemond e non per fare il gradasso, il resto dei rivali lo vede col binocolo: terzo Breukink a 6’55”, quarto Lemond a 7’27”, quinto Delgado a 9’2”. Bugno galleggia a 10’48”, settimo. L’Italia lo ignora per ammirare Chiappucci in giallo, consolandosi dei Mondiali di calcio persi barbinamente e far di conto su quanti secondi possa permettersi di perdere di tappa in tappa; ne mancano nove, di cui un’ulteriore cronometro al penultimo giorno. La prima è traumatica: a Saint-Etienne, in media montagna, Chiappucci viene attaccato da Pensec, mette la squadra alla frusta e subisce il contrattacco di Lemond, che si porta appresso Breukink e Indurain. Bugno non c’è (Delgado nemmeno), ma al traguardo perderanno solo mezzo minuto. I guai sono di Chiappucci che, con la tattica miope e sconsiderata di inseguire il gregario Pensec, non capisce la strategia del capitano Lemond e nella bella città della Loira arriverà quasi cinque minuti dopo di lui. L’erosione è iniziata con la dinamite, i calcoli in vista dell’ultima crono vanno rifatti drasticamente: Breukink, secondo, incombe a 2’2”, Lemond, vieppiù minaccioso, a 2’34”. Bugno è sesto a oltre 6’; il giorno dopo attacca e arriva terzo a Millau, rosicchiando 9 inutili secondi a Lemond che però ne rosicchia 13, piccoli ma sentiti, a Chiappucci.

Non è più il Tour che ci si aspettava secondo il consueto menu ammannito dagli organizzatori, con le disfide a cronometro e le imprese disperate in salita diluite fra trasferimenti cicloturistici per i cacciatori di gloria giornaliera. Ogni tappa può essere leggendaria; Chiappucci, giallo e curvo sulla bicicletta rovente, viene presentato agli Italiani come un eroe della resistenza contro l’americano biondo e bionico, che si impegna poco e vince sempre. A Revel un buchino nel gruppo fa riguadagnare 3” a Chiappucci. A Luz Ardiden, dopo aver scalato col d’Aspin e Tourmalet, Indurain vince una tappa che negli anni successivi sarà letta con occhi diversi, come prima zampata di un dominio. Dietro di lui, Lemond; Chiappucci arriva tardi, a oltre due minuti. Il cronometro scorre in basso sugli schermi mentre si moltiplica il countdown: ha ancora venti secondi di vantaggio, ne ha dieci, sette, sei. All’arrivo sono cinque, miserrimi ma sufficienti a mantenere la maglia gialla mentre Bugno va alla deriva insieme a Breukink, perdendo più di quattro minuti.

La tappa successiva parte da Lourdes e Chiappucci riesce a conservare l’esiguo vantaggio. Poi si arriva a Pau e Bugno vince di nuovo, stavolta in pianura, ma ormai corre per la gloria poiché in classifica è sesto a 7 minuti e mezzo. I 5” di Chiappucci su Lemond resistono anche il giorno dopo, a Limoges. Non si capisce chi dei due stia sfibrando l’altro: l’americano sa di avere dalla propria la cronometro della penultima tappa; l’italiano, che per il sembiante slanciato è stato ribattezzato Andreotti, sa che il potere logora chi non ce l’ha. Arriva il giorno decisivo, sabato 21 luglio 1990. Sono 45,5 km. A Bugno, sconfortato se guarda la classifica e sazio se guarda alle tappe, bastano per perdere un’altra posizione e scivolare al settimo posto. Chiappucci fa di peggio; a un decimo di corsa ha già perso l’ultimo soffio del vantaggio di Futuroscope che lo aveva fin lì conservato in giallo e Lemond può permettersi di non forzare. L’americano arriva comodo al traguardo con quasi un minuto di ritardo da un Breukink in grande spolvero. Chiappucci perde 3’18” e a un certo punto sembra poter lasciarsi sfuggire anche la seconda posizione: con tanto fiatone conserva 13” di margine sul vincitore di tappa olandese.

Il giorno dopo, come da tradizione, è passerella sui Campi Elisi. Greg Lemond vince il terzo Tour, il più ingiusto forse e sicuramente il più assurdo, molto probabilmente il più voluto e il più sudato. Chiappucci arriva secondo a 2’16”, un distacco che – se letto solo a classifica ultimata – non rende giustizia all’apoteosi coronarica della settimana in giallo. Bugno, settimo a 9’39”, mastica amaro perché, con due tappe vinte e una corsa di buon profilo sia in montagna sia a cronometro, è stato condannato all’ombra mentre un rivale inatteso e disorganizzato carpiva i cuori delusi dalle notti tragiche di Italia 90. Giorno dopo giorno, salendo sul podio con sicurezza sempre più risicata, Claudio Chiappucci si lisciava addosso la maglia che Gianni Bugno forse sentiva spettare a sé, al dominatore del Giro che aveva fatto capire agli italiani di avere alfine un nuovo pretendente alla più importante delle corse a tappe. Invece erano due.

(1-continua)