lunedì 7 dicembre 2015

Grande attenzione oggi sui giornaloni – Corriere e Stampa in primis – a Gianni Rivera che esce dalla propria consueta riservatezza lanciando sul mercato un’autobiografia monumentale che non solo costa 50 euri ma che è anche stata pubblicata da un editore che non esiterei a definire oscuro, che richiede l’acquisto online (dal sito giannirivera.it) e definisce il cinquantone prezzo promozionale.  Mah. Mi sorprende perché soli due anni fa Rivera aveva dato forse inavvertitamente il più perspicace giudizio sul calcio – ma che dico sul calcio, sull’Italia dei nostri giorni – quando era stato intervistato da Nicola Calzaretta sul Guerin Sportivo in occasione del suo settantesimo compleanno. Calzaretta gli aveva chiesto ragione di come mai si fosse sempre dimostrato “refrattario alle emozioni” e Rivera aveva risposto – ve lo dico dopo cos’ha risposto. Prima verifichiamo il senso della domanda e la sua corrispondenza ai dati di fatto.

Rivera esordì nella prima squadra dell’Alessandria a quattordici anni in un’amichevole contro il non temibile Aik Solna. Dai vaghi ricordi che serbo dell’adolescenza mi pare di sapere che a quattordici anni tutti sono emozionati per definizione; Rivera però non lo fu e oltre a giocare benone segnò anche una rete. Il due giugno del 1959, con l’Alessandria che si era appena assicurata la salvezza ai danni del Torino, esordì sul serio in serie A contro un’avversaria più temibile degli svedesi: l’Inter. Non si emozionò nemmeno allora e finì 1-1. Non aveva all’epoca ancora sedici anni, età minima per poter essere schierato in campo; l’Alessandria poté farlo solo grazie a un permesso speciale della Federazione, per fortuna poco emotiva anch’essa e quindi poco propensa a lanciarsi in alti lai sullo sfruttamento minorile. Rivera passò al Milan e il 18 settembre 1960, una settimana prima dell’inizio del campionato, esordì in rossonero in una gara di Coppa Italia: avversario proprio l’Alessandria dov’era cresciuto. Niente emozioni, niente sceneggiate, niente piagnistei. Rivera giocò e il Milan vinse. Non segnò ma c’è ragione di presumere che, l’avesse fatto, non si sarebbe trattenuto dall’esultare cedendo all’ipocrisia dell’ex. Aveva diciassette anni. Per rendere l’idea, quell’estate Trapattoni ne aveva venti e giocava nella nazionale impegnata alle Olimpiadi di Roma; in trattoria aveva notato una cameriera che gli piaceva ma si era emozionato e, se non si fossero prodigati da pronubi due suoi compagni e commensali, non avrebbe trovato il coraggio di conoscere la propria futura moglie.

Avanti veloce col nastro. Rivera vinse lo scudetto del 1962, esordì in nazionale, vinse la Coppa dei Campioni del ’63, arrivò secondo nella classifica dell’unico Pallone d’Oro vinto da un portiere ma non si scompose, stante anche il leggendario merito di Lev Jascin; nel ’66 divenne capitano, rivinse lo scudetto nel ’68, rivinse la Coppa dei Campioni l’anno seguente e per soprammercato l’Intercontinentale sopravvivendo alla caccia all’uomo organizzata a Buenos Aires dall’Estudiantes; a dicembre del 1969 vinse il Pallone d’Oro, un trofeo molto più contenuto del barocco macigno di oggidì, e lo ricevé con guardinga indifferenza sul prato di San Siro prima di una partita contro il Cagliari dalle mani di un uomo in impermeabile. Dopo di che lo sollevò svogliatamente col braccio destro, quello senza la fascia bianca da capitano, e ci volle qualche insistenza per farglielo portare in trionfo con entrambe le mani. In una delle foto che documentano l’evento, sorride quasi.

Il 17 giugno 1970 si trovò sulla linea di porta dello stadio Azteca di Città del Messico per difendere il palo alla sinistra di Ricky Albertosi durante la semifinale dei Mondiali. Era il quinto minuto del secondo tempo supplementare, l’Italia stava vincendo 3-2 e la Germania batté un calcio d’angolo sul quale Uwe Seeler colpì di testa dando al pallone una traiettoria arcuata sulla quale si avventò Gerd Müller. Il ralenti da dietro la porta dimostra che, come commentò amaro Martellini, “potrebbe intervenire Albertosi o Rivera”; invece la palla lambì il quadricipite di quest’ultimo e la Germania pareggiò. Rivera si abbarbicò al palo: mentre i tedeschi si abbracciavano quasi venne colto da uno spasmo ma subito si contenne, cinse il legno e lo avvolse con la gamba destra dalla quale stava per partire uno scatto di rabbia, un calcio al nulla. A cosa sarebbe servito? Rivera preferì non emozionarsi. Tornò a centrocampo inseguito dagli improperi di Albertosi per prendere palla immediatamente dopo il calcio d’inizio. La conservò sovrappensiero per qualche secondo mentre i tedeschi si disponevano nuovamente in difesa, stremati però, dando via libera all’azione che trovò Boninsegna furibondo sull’ala sinistra. Questi saltò Schulz miserello e forse senza nemmeno guardare propose un rasoterra disperato verso il centro dell’area, dove supponeva potesse, quanto meno dovesse esserci qualcuno; c’era Rivera il quale, ancora inseguito dalle bestemmie che Albertosi sarà stato intento a masticare sotto i baffi tagliati, segna nel momento più difficile il goal più facile che si possa immaginare, un piatto destro dritto nel punto in cui Meier non sarebbe arrivato, essendo il portiere tedesco stato spiazzato dall’evenienza che chiunque a quel punto dello psicodramma avrebbe sentito i polsi tremare e si sarebbe avventato sul pallone con la prima gamba disponibile, la sinistra appunto e magari di collo pieno, e non avrebbe certo usato la gamba della ragione, il piatto illuminista. Rivera alzò i pugni al cielo arcuando le braccia verso di sé, mentre i compagni lo cingevano dal ventre facendolo roteare, mentre Meier ancora carponava e Schulz giaceva faccia a terra, mentre Martellini si concedeva addirittura un “Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani” e mentre una voce anonima dalla tribuna stampa urlava con gutturalità gorillesca “Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo!”, mentre l’arbitro che era messicano ma si chiamava Yamasaki favoriva il deflusso dei calciatori azzurri verso la metà campo con consumate movenze da vigile urbano. Poi Rivera tornò a centrocampo al piccolo trotto, quasi passeggiando, nemmeno spettinato.

Conservò la stessa postura fieramente eretta il 6 maggio 1979, quando al Milan ormai completamente suo era più che sufficiente un pareggio per tornare a vincere uno scudetto dopo undici anni. L’eccezionalità dell’evento, poiché vincendolo sarebbe stato il decimo che avrebbe consentito di decorare la maglia rossonera con la stella dorata, aveva richiamato sugli spalti una quantità di persone tale e talmente incontenibile che non c’erano le condizioni per far cominciare la partita in buon ordine. La stella del Milan era in mano alle mattane di qualche migliaio di sconosciuti, più indomabili di undici tedeschi. Rivera non perse la testa. Continuando col passo che aveva tenuto nello stadio Azteca, avanzò sul prato di San Siro fino al punto in cui gli venne porto un microfono a gelato e pronunciò l’epigrafe resa appena umana dalla erre moscia: “Se non vi togliete dall’anello inferiore, il questore non potrà dare il permesso di iniziare la partita”. Il pubblico era riottoso, vociava e ruggiva. Un gentiluomo col cappello bianco a fungo gli si parò dinanzi e protestò dimenandosi esagitato: “Signor Rivera, io non voglio che il Milan perda lo scudetto perché vengo da Reggio Calabria, da Reggio Calabria vengo. E io voglio che se ne vanno, perché ho fatto millecinquecento chilometri”. Per Rivera l’esagitato era trasparente, invisibile, più piccolo del Pallone d’Oro. A stento levò un braccio per impartirgli la benedizione. Poi il popolo seguì la sua ammirevole calma, si ricompose, la partita poté iniziare e il Milan ebbe la stella.

Dunque Calzaretta aveva chiesto ragione a Rivera di come mai si fosse sempre dimostrato refrattario alle emozioni e Rivera gli aveva risposto che veniva da una famiglia di contadini, in cui non c’era tempo per emozionarsi. Italiani abituati a urla e strepiti, adusi all’aggettivo “incredibile” in ogni salsa, avvezzi allo strillo per azioni appena passabili, assuefatti al nome di campionissimo gettato a casaccio su fugaci fenomeni da baraccone, anestetizzati dalle lacrime in tv, propensi a disciogliersi per un bambino ciccione che canta, famelici di eventi, convinti ciascuno della propria eccezionale irripetibilità, confinati in un carnevale di eccessi perpetui, o noi che nel nostro piccolo siamo sentimentali, drammatici, esagitati, facinorosi, epilettici: se vogliamo combinare qualcosa prendiamo esempio e non emozioniamoci mai.