Bene, oggi prendo e vado a lavorare a Cambridge per un mesetto. Ciao. Mia madre, dal 1998 sempre attenta ai miei spostamenti, mi ha domandato perché non andassi piuttosto a Oxford, visto che ci avevo già vissuto e lavorato per due anni e mezzo; la domanda è saggia ma la risposta si trova già in un mio pezzo uscito sul Foglio nel settembre di cinque anni fa, subito dopo che Cambridge aveva superato Oxford e Harvard in vetta alla classifica delle migliori università del mondo:
Infilare le università in una graduatoria mondiale non ha molto senso perché la loro qualità andrebbe calcolata sul beneficio che ciascuna facoltà o dipartimento può garantire a ogni singolo alunno. Per questo i QS World University Rankings hanno risultati discutibili: Oxford peggio dell’University College London? L’École Normale Superieure trentatreesima? Bologna e La Sapienza uniche due università italiane decenti? Fra le righe la graduatoria fornisce anche un’importante indicazione per il futuro delle accademie. Sulle duecento università eccellenti, la prima non anglofona è Zurigo al diciottesimo posto, quelle francofone arrancano, le italofone sono disperse. Si è creata una lega stabile di sedi nelle quali circola un vortice pubblicazioni accademiche in inglese, che traggono affidabilità e prestigio da pareri favorevoli incrociati. Triste ammetterlo, ma pubblicare in italiano significa condannarsi alla periferia dell’Impero.
Se c’è una cosa sulla quale non mi sento di discutere è il primato di Cambridge, che finalmente quest’anno scavalca Harvard e ristabilisce l’ordine naturale del creato. Chiunque sia passato per Cambridge deve riconoscere (o ammettere a denti stretti, se viene da Oxford) che il primo posto è sacrosanto. È scritto nei muri della stessa città, nella sua cristallina coerenza architettonica. Cambridge non è una cittadella universitaria rinchiusa all’interno di una città che nel migliore dei casi la ignora e nel peggiore la osteggia; non è sgranata in infiniti dipartimenti e college distanti chilometri l’uno dall’altro. A Cambridge l’università è la città. Nella strada principale del centro, uno accanto all’altro si passano in rassegna i college più importanti: da nord a sud il St John’s, il Trinity, il King’s, ognuno con la sua peculiare costruzione che però non fa a pugni con il resto ma sembra volerlo completare, aggiungere qualcosa al tutto senza subissarlo. Nel quadrato costruito su quella strada dritta, che cambia nome a seconda del collegio davanti a cui passa, studenti e professori trovano tutto ciò di cui possono avere bisogno: supermercato, libreria, pub, centro commerciale, discoteca, biroccino che vende gli hot dog e senato accademico. Tutto il centro si percorre in lungo e in largo nel giro di dieci minuti. Uno può perdere così poco tempo che finisce per studiare con gioia.
È il fiume a sancire la coerenza di Cambridge. Oxford ne ha tre ma sono disposti malissimo. Il Cam invece passa parallelo alla strada principale attraversando i college e separandone la parte antica dalla parte nuova, generalmente ottocentesca, e da quella nuovissima dietro la quale si estendono i backs, ossia gli infiniti prati che ricongiungono il retro dei vari college in un’unica passeggiata. Né è una passeggiata di mero piacere: dai backs si percorre la strada più breve per arrivare alla University Library, il giardino proibito che custodisce tutto ciò che bisogna sapere.
La University Library è il motivo per cui Cambridge, classifiche o no, sarà sempre e inevitabilmente la migliore università al mondo. Consta di due ali di sei piani ciascuna, separate da un torracchione in stile anni ’30 nel quale sono nascosti i libri preziosi o rari, che possono venire ordinati online e vengono consegnati nel giro di una mezz’oretta, con tante scuse per il rallentamento degli studi. Nelle due ali, divise per aree tematiche, i volumi sono disposti su scaffali ravvicinatissimi, che consentono il passaggio a una persona per volta e contengono tutto ciò che si possa desiderare di leggere. Essendo ad accesso libero permettono di avventurarsi in passeggiate tematiche in cui si scopre sempre la pubblicazione che non si conosce e si inizia a studiare qualcosa di nuovo mossi dalla curiosità e non dalla necessità. Questa è la grande differenza con altre università a scaffale chiuso: altrove bisogna sapere a priori cosa si sta cercando sul catalogo e quindi la propria ricerca consiste in un cauto ampliamento delle nozioni di partenza. A Cambridge invece il sapere ti salta addosso: si può entrare in biblioteca totalmente ignoranti e uscirne qualche anno dopo sapendo tutto.
giovedì 30 luglio 2015
mercoledì 29 luglio 2015
Sarà che domani torno a riconciliarmi (spero) con l'Inghilterra, land of hope and glory, quindi sospetto che dati i precedenti potrei non tornarne vivo; sarà che stamattina mi ha suggestionato sui giornali la magna copia di articoli sulla ragazza della Fortezza dopo che la corte d'appello ha sancito che non fu stuprata bensì consenziente, con profluvio inevitabile di campagne online a colpi di hashtag #nessunascusa; sarà che la rapidità, l'esattezza, la previdenza oramai preoccupanti con cui preparo i bagagli mi fanno balenare in mente che forse come casa ho una valigia, inducendomi pertanto a distoglierne i pensieri facendoli vagare lontano; fatto sta che mi sono ricordato all'improvviso che quattro anni fa avevo seguito dal vivo la Slut Walk organizzata a Londra per un caso assimilabile a quello della Fortezza e avevo scritto queste tremila battute che poi mai più avevo pubblicato. Quindi eccole:
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
martedì 28 luglio 2015
Muore Sebastiano Vassalli ma resta in ottima salute l'abitudine italiana a commemorare per generiche allusioni - "raccontò i costumi degli italiani", "ci mancherà", "nei suoi libri la storia d'Italia", "uno scrittore sensibile e appassionato" - che rivestono la stessa identica funzione di quando, al liceo, avevamo sempre pronta una risposta vaga utile a non fare scena muta quando ci chiamavano alla lavagna e non avevamo studiato. Permane l'uso, anzi il riflesso condizionato, a sentirsi in dovere di un elogio quando muore qualcuno la cui attività riteniamo meritoria per quanto faticoso sia per noi fruirne, vergognandoci di ammettere che sì, Sebastiano Vassalli era famoso ma nessun passante sarebbe in grado di elencare i titoli dei suoi libri foss'anche in disordine cronologico, e che La Chimera, sì, La Chimera era proprio un bel romanzo ma molti italiani sedicenti colti, con la laurea in lettere addirittura, o ne hanno solo sentito parlare o magari l'hanno iniziato e non finito o l'hanno comprato e messo ad aspettare tempi migliori in bella mostra su una mensola, intonso. Quando muore uno scrittore, vogliamo fare bella figura perché abbiamo la coscienza sporca; noi nazione di non lettori, di fumosi chiacchieroni, di superficiali incapaci di distinguere il grano dal loglio, di refrattari alla parola chiara, ci siamo scatenati su twitter a postare copertine de La Chimera o foto baffute con l'hashtag #Vassalli e profondendoci in alti lai in vista della mancanza che ne sentiremo; senza nessuno che dicesse: giusto, Sebastiano Vassalli era una daga conficcata nella coscienza italiana, era uno degli ultimi testimoni di una generazione di intellettuali in via d'estinzione, aveva la fortuna di scrivere libri che compravamo e una tribuna sui giornali da cui ammonirci, ma ha spostato il carattere nazionale di un millimetro? No, perché siamo di cemento. Sebastiano Vassalli era un bravo scrittore, quindi non mancherà quasi a nessuno; non si sarebbe altrimenti rinchiuso nel Monferrato in splendido isolamento.
lunedì 27 luglio 2015
Le Tour, jamais (5)
Quinta e ultima puntata del feuilleton giallo del psicociclismo estivo. Cliccando qui trovate la prima, la seconda, la terza e la quarta.
Se sei martello batti e se sei incudine statti, dicono a
Napoli e forse, per via di Garibaldi, la voce sarà arrivata fino a Monza. Dopo
mesi e mesi trascorsi in posizione fetale a leccarsi le ferite inferte dal
Tour, Gianni Bugno torna martello al Giro delle Fiandre del 1994. È il giorno
di Pasqua e, si parva licet, la
risurrezione non guasta. Veste maglia Polti e brucia Musseuw in volata
infinitesimale, in discussione fino all’ultimo fotofinish perché ha alzato le
braccia proprio mentre il belga dava il corpo di reni postremo. Rischiosissimo;
di lì in poi deciderà di non alzarle più se non per una vittoria che meriti,
ossia o il Tour o il terzo Mondiale. Continua a vincere al Giro, una tappa,
indossa fugacemente la maglia ciclamino, si classifica dignitosissimo ottavo
nella prima corsa a tappe in cui Indurain riesca a non primeggiare, infilzato
nell’ordine dal russo di Broni Eugenio Berzin e dal gregario spelacchiato di
Chiappucci, Marco Pantani.
Al Giro Indurain non tornerà più, consapevole che il suo
fisico non può più reggere un impero su cui non tramonti mai il sole; si
ripresenta invece in giallo all’apertura di gala al gran prologo di Lille. Non
vince (si aggiudica il prologo Chris Boardman, da poco spogliato del record
dell’ora da Graeme Obree, lo scozzese che correva su una bici fatta anche con
pezzi della lavatrice) ma distanzia tutti i concorrenti, da Rominger a Zülle a
Chiappucci. Bugno, che pure è lo stesso che aveva aggredito le prime tappe del
Giro sembrando tornato agli antichi fasti, è dietro a tutti loro. Rimane
trasparente, impercettibile, fino alla nona tappa, la cronometro di Bergerac.
Indurain non fa prigionieri e dà due minuti a Rominger, cinque e mezzo a
Boardman, sei a Ugrumov, otto a Chiappucci, nove a Zülle. Bugno arriva a
10’37”, sconquassato benché sempre illeggibile in volto, penultimo fra i
favoriti davanti al solo peso piuma Pantani. Stringe il cuore il computo dei
minuti che giorno dopo giorno gli piombano addosso nelle tappe di montagna. Al
mattino del 17 luglio 1994, a Castres, la classifica recita Indurain primo con
7’56” di vantaggio su Virenque, secondo. Vale la pena di continuare?
Bugno non
si presenta ai nastri di partenza e torna in Italia. Pantani invece continua,
insiste, scatta e a fine Tour arriva sul podio, terzo dietro Ugrumov, a 7’19”
da Indurain che ha tirato i remi in barca.
Bugno non vincerà null’altro di significativo fino all’anno
dopo, complice una squalifica per doping dovuta a un caffè con Coca Cola preso
al bar prima della Coppa Agostoni. A una settimana dall’inizio del Tour del
1995 si corrono a Pescara i campionati italiani di ciclismo. Bugno va in fuga,
resiste alla pioggia, vince su Andrea Tafi la volata del gruppo ristretto e si
guarda bene dall’alzare le braccia. È il ritorno dell’eroe? A ben guardare, ha
di nuovo saltato il Giro privilegiando una lunga pausa meditativa. Nel ’92
l’aveva fatto per cercare di scalzare Indurain e Chiappucci dai rispettivi
troni; nel ’95 lo fa perché spera di accaparrarsi la maglia anche per un solo
giorno, in maniera più o meno casuale, con una coltellata di gran classe nelle
prime tappe. Ha bisogno di passare anzitutto indenne il prologo di
Saint-Brieuc, che si corre in notturna. È una tappa atipica, tant’è vero che la
vince il mattacino Jacky Durand; Bugno, minacciato dalle tante cadute nella
notte bretone, preferisce affrontare le curve con prudenza e rimanda l’assalto
alle tappe successive; non è così che ha fatto anche al Giro dell’anno prima?
Ma niente, la sua corsa procede anonima mentre a Le Havre acciuffa la maglia
Ivan Gotti, bergamasco sino ad allora sconosciuto, che la serba un paio di
giorni.
Niente, non è destino; tanto più che il 9 luglio c’è la
crono di Seraing; tanto più che l’8 luglio, mentre tutti stanno cercando di
risparmiare energie, Indurain impazzisce e va in fuga in una tappa piatta. Fa
una cronometro da solo, con a rimorchio Johann Bruynell che gli succhia le
ruote, non dà un cambio e poi si prende tappa e maglia gialla (tanto, il giorno
dopo, Indurain sa di vincere la crono, tappa e maglia come sempre). È il più
gran numero mai fatto sulle strade dei Tour postmoderni. “Dite che vinco solo a
cronometro, dite che in montagna amministro stancamente?”, sembra chiedere
Indurain mentre taglia l’aria a velocità missilistica: “Allora vi faccio vedere
che mi basta una tappa a casaccio per mettere un minuto fra me e gli altri, per
pura forza di watt sui pedali”. Bugno affonda. Mentre perfino il vecchio
Chiappucci s’affaccia in classifica (decimo a un quarto d’ora a metà Tour), il
campione d’Italia sparisce dai radar. A Parigi è cinquantatreesimo a 1h58’47”
di distanza da Indurain, primo e ultimo a vincere cinque Tour di fila. Meglio
di Bugno fa Gotti, quinto, meglio di Bugno Chiappucci, undicesimo; ma meglio
fanno anche corridori come Lanfranchi,
Cenghialta, Podenzana, Pelliccioli, il danese Bo Hamburger e l’ucraino Vladimir
Poulnikov, la meteora statunitense Lance Armstrong e il redivivo polacco Zenon
Jaskula, tutti rispettabilissimi pedalatori ma non baciati da un alluce del
talento che la bici aveva riservato a Bugno.
Ultimo forse a essere nato passista, scalatore, cronoman e
velocista tutt’insieme, Gianni Bugno decide di non partecipare più al Tour. Il
giallo avrebbe donato alla manifesta superiorità della sua classe ma è meglio
lasciar perdere; finché ci sarà Indurain non c’è speranza e andare in giro per
la Francia a fare il treno merci non è confacente. L’estate dopo, spogliato
anche del tricolore, Bugno segue la corsa dal divano di casa. Alla prima tappa
di montagna Rai Tre gli telefona in cronaca e lui a mezza bocca sembra quasi
rimproverarli: “Non avete visto che a Indurain in cinque anni non è mai venuto
un raffreddore?”. Tradotto, cosa state lì a fare la telecronaca? Cosa stavo io
lì a corrergli dietro? Detto, fatto. Sulla salita di Les Arcs, a tre chilometri
dall’arrivo, la telecamera inquadra Indurain da solo. Ecco, dicono i cronisti,
ecco che è partito, s’invola verso il sesto Tour anche senza la cronometro
pedemontana di prammatica. L’inquadratura successiva mostra però i culi di vari
ciclisti davanti a lui. All’arrivo Indurain prenderà quattro minuti di ritardo,
non vincerà mai più un Tour, e Bugno sul divano penserà che proprio non era
destino.
domenica 26 luglio 2015
Se Dio non esiste, l'ateismo non sta tanto bene. Sul sito del Foglio trovate la mia lettura parallela di un libro italiano secondo il quale non esiste altra scelta ragionevole che dirsi atei e di un libro francese secondo il quale l'ateismo è crepato di morte naturale due o tre anni fa; basta cliccare qui.
sabato 25 luglio 2015
Il Tour di Chris Froome è finito oggi, di fatto; mentre noi che una ventina d'anni fa eravamo vigili e coscienti ci ricordiamo perfettamente che il Tour di Miguel Indurain non finiva mai, durando anni e anni. Ecco la quarta puntata - cliccando qui trovate la prima, la seconda e la terza - del feuilleton ciclistico della mia estate:
Le Tour, jamais
Il 6 settembre 1992 i Mondiali di ciclismo si corrono a
Benidorm. La stampa italiana, che cerca motivi di rivalsa, è concorde nell’argomentare
che la cittadina valenciana non sarà Pamplona, donde arrivava Indurain, ma è
quanto meno la città di origine della sua futura moglie. Vabbe’. Non si sa se
possa essere stato questo a scatenare Gianni Bugno il quale, in maglia azzurra
e pantaloncini Gatorade, brucia in volata gli insidiosissimi Jalabert e
Konychev e si rimette la maglia iridata che aveva dismesso per un solo giorno. La
volata gliela tira con commovente abnegazione Giancarlo Perini, gregario
piacentino di Chiappucci che in dodici anni di carriera, a furia di
sacrificarsi, all’epoca non aveva ancora vinto una gara. Per la cronaca, ne
vincerà una sola, la terza tappa al Giro di Puglia dell’anno dopo. Sempre per
la cronaca, non capitava dal 1961 che un ciclista riuscisse a vincere due volte
di fila la corsa più crudele del calendario, sette ore sui pedali per un anno
intero di gloria; l’ultimo prima di Bugno era stato Rik Van Looy, il primo dopo
di lui sarà Paolo Bettini nel 2007. Però il ’93 di Bugno non era iniziato
all’altezza; miglior piazzamento, un trentesimo posto alla Milano-Sanremo. Poi,
al Giro, Bugno non decolla e chiude diciottesimo mentre Indurain vince di
nuovo. Qualcuno sussurra che sia proprio colpa del navarro: per cercare di
tenergli testa a cronometro Bugno ha cercato di guadagnare in potenza perdendo
la leggerezza che lo benediva in salita.
Quando il Tour parte dal Puy-du-Fou, il 3 luglio, Bugno è
subito terzo nel prologo, dietro a Indurain che resta in giallo e ad Alex
Zülle, davanti però a Monsieur Prologue
Thierry Marie, a Tony Rominger, a Jalabert e a Chiappucci che comunque si
difende alacremente. Sembra che l’iridato abbia passato i mesi precedenti a
prepararsi al momento giusto in cui carpire la maglia gialla, non appena
Indurain dovesse avere un capogiro, un raffreddore, un foruncolo al soprasella.
Il giorno dopo inizia la giostra degli abbuoni e Indurain, che si guarda bene dall’affrontare
la volatona finale, si lancia comunque in una volatina per sfilare il secondo
posto a Jalabert su un traguardo intermedio aggiungendo così qualche altro inutile
secondo fra sé e il resto del mondo: dopo due giorni di Tour, Zülle è già a 12”,
Bugno è terzo a 15”. Questi capisce l’aria che tira e alla tappa successiva, a
Vannes, si butta nel gruppetto che disputa il traguardo riuscendo a sua volta a
distaccare di qualche secondo Indurain; poiché tuttavia, fra traguardi
intermedi e definitivi, i velocisti fanno incetta di abbuoni, la maglia gialla
passa al temerario belga Wilfried Nelissen. Indurain e Bugno, immobili separati
da nove secondi, scendono ancora un po’ in classifica dopo la volata successiva
e si mantengono in posizione di reciproco studio con la cronosquadre di
Avranches: la Banesto riesce a dare solo 12” alla Gatorade ma entrambe
subiscono uno smacco superiore al minuto dalla Once di Zülle; crolla Rominger,
a più di tre minuti. Onta su onta, la crono è vinta dalla GB-MG di Mario
Cipollini che, grazie ai famosi abbuoni incamerati nelle tappe precedenti,
arraffa la maglia gialla: è lui, anziché Bugno, il primo italiano a vestirsene
dopo l’exploit di Chiappucci.
Cipollini e Nelissen
si scambiano la maglia gialla nelle tappe successive finché con una bella fuga
non arriva il momento di Johann Musseuw. Il giorno dopo, a Verdun, il pittoresco
ciclista texano Lance Armstrong consegue la sua unica vittoria sulle strade del
Tour. Bugno e Indurain proseguono in surplace; la data che da Capodanno hanno
cerchiato sul calendario è il 12 luglio: contre-la-montre
al Lac-de-Madine, 59 km di aerodinamicità. Quanto segue è sconvolgente. Tutti
arrivano con la bava alla bocca, storti sul telaio, schiantati; Bugno arriva
imperturbabile come suo solito. Indurain arriva sorridendo nonostante una
foratura: ha dato 2’11” a Bugno (“primo degli umani”, come da retorica
giornalese), 2’22” a Breukink, 2’42” a Rominger, 3’18” a Zülle, 3’50” a
Bruynell. Gli altri hanno distacchi dai 4 minuti all’infinito. In classifica,
Indurain torna giallo davanti a Breukink e Bruynell; Bugno è quarto a 2’32”.
Non è una situazione impossibile. L’anno prima, dopo la
crono del Lussemburgo, aveva un minuto e rotti in più da recuperare. Rispetto
all’olandese e al belga che inseguono Indurain, Bugno è miglior scalatore, più
navigato e fine, quindi le Alpi possono avvantaggiarlo nella rincorsa al
navarro; e anche Chiappucci potrebbe tentare la rimonta dopo nove tappe
piattissime, tutte a rincorrere. Dopo il giorno di pausa si sale a
Serre-Chevalier, con Télégraphe e Galibier tanto per gradire. È il giorno
in cui i due italiani, nella fantasia
dei connazionali, dovrebbero allearsi per vendicarsi dello strapotere del
leader. Chiappucci potrebbe partire da lontano e cercare la vittoria di tappa,
come l’anno prima al Sestriere; Bugno ha classe e resistenza sufficienti a
seguirlo e a lavorare ai fianchi il navarro troppo abituato a essere portato in
carrozza ai piedi dell’ultima salita, infliggendogli un buon distacco se non
addirittura sfilandogli la maglia. Nella realtà dei francesi, invece, Chiappucci
si stacca sul Télégraphe e Bugno pure, a seguito di un’accelerazione di
Rominger che poi vincerà la tappa graziosamente concessa da Indurain il quale, da
despota illuminato, lo lascia andare nei metri finali. È lo svizzero che ha
iniziato la rimonta che ci si aspettava da Chiappucci. Questi arriverà a 8’49”;
Bugno, un po’ meglio, a 7’42”. In classifica
è ancora nono ma a metà Tour il suo ritardo supera i 10 minuti; poiché è lì per
vincere, o quanto meno per vedere una buona volta come gli sta il giallo
addosso, la sua corsa è di fatto terminata. Il giorno dopo, a Isola 2000,
Chiappucci resiste in coda a Indurain, che lascia nuovamente la vittoria a
Rominger; l’iridato invece perde altri tredici minuti.
Per tutto il resto del Tour non si avrà notizia di Bugno,
mentre Chiappucci si aggrappa coi denti al proprio ritardo e riesce a
concludere la corsa gialla con un dignitoso sesto posto benché a 17’18” dal
navarro. Unica eccezione, la crono di Montlhéry che precede la consueta
passerella conclusiva; spinto dall’inerzia degli allenamenti aerodinamici,
Bugno arriverà quinto a 3’ dal vincitore che, per una volta, non è Indurain ma
Rominger. Ai Campi Elisi il navarro vince il terzo Tour di fila con cinque
minuti di vantaggio su Rominger e qualche secondo in più sul polacco Zenon
Jaskula, che tornerà immediatamente dopo all’anonimato da dove è venuto. Il campione
del mondo chiude ventesimo a 40 minuti dal vincitore; gli organizzatori onorano
la sua scelta di trascinarsi comunque a Parigi con il premio fair-play, ma nell’estate
del ’93 si capisce che nella testa di Bugno c’è uno e un solo obiettivo, giallo,
mastodontico e ossessivo. Finché non riuscirà a scalzare Indurain, galleggiare
o affondare non farà differenza. Nemmeno i Mondiali.
(4 - continua)
Oggi sul Foglio di carta trovate un inserto di quattro pagine in cui Giuliano Ferrara, Adriano Sofri, Antonio Fazio, Umberto Minopoli e chi più ne ha più ne metta rispondono alla domanda: ma Papa Francesco è comunista? Ci trovate anche una mia lunga chiacchierata, un po' politica un po' filosofica, con un Massimo Cacciari in grande spolvero.
Inoltre sull'edizione online potete leggere l'articolo che a stento riuscirete a finire prima di sentire l'insopprimibile impulso a prendere la prima astronave e andare a evangelizzare Kepler 452b, il pianeta sul quale Maurizio Milani assicura esserci tuttavia già grande abbondanza di seminaristi.
Inoltre sull'edizione online potete leggere l'articolo che a stento riuscirete a finire prima di sentire l'insopprimibile impulso a prendere la prima astronave e andare a evangelizzare Kepler 452b, il pianeta sul quale Maurizio Milani assicura esserci tuttavia già grande abbondanza di seminaristi.
venerdì 24 luglio 2015
La Nasa ha scoperto il pianeta gemello della Terra. In prima pagina sul Foglio di oggi - in un pezzo che continua a pagina IV e contiene citazioni occulte da Dante, Baudelaire, Gianni Brera, Giulio Cesare, Wolfgang Becker, inevitabilmente Voltaire e soprattutto Woody Allen - avanzo la seguente modesta proposta:
Come se non bastasse, a pagina 2 invece parlo dello stato di salute dell'ateismo intellettuale confrontando due libri inconciliabili appena sbarcati in libreria: Senza Dio di Eugenio Lecaldano (Il Mulino), secondo il quale l'ateismo sta una bellezza, e La bella morte dell'ateismo moderno di Philippe Nemo (Rubbettino), secondo il quale invece l'è mort.
giovedì 23 luglio 2015
Le Tour, jamais (3)
Terza puntata della storia prima felice poi dolentissima di come Gianni Bugno, nonostante l'evidente superiorità su quasi tutti i concorrenti, neanche nel suo miglior Tour de France riuscì a vestire la dannatissima maglia gialla. Cliccate qui per la prima e per la seconda puntata.
Inutile girarci intorno, la scena madre del Giro d’Italia
1992 è Miguel Indurain in maglia rosa che, nella cronometro conclusiva in
Lomellina, acchiappa Chiappucci, partito ben prima di lui, affibbiandogli un ritardo
complessivo di cinque minuti. Ciò non impedisce al diavolo della Carrera di
arrivare secondo in classifica generale, in maglia verde di miglior scalatore,
ma significa al contempo due cose. Anzitutto deprezza il piazzamento di
Chiappucci, relegandolo su un gradino del podio piccolo piccolo visto che non è
mai stato in grado di impensierire il gran navarro. Ma chi lo è? La seconda
conseguenza è infatti che la sfida rimandata al successivo Tour è di fatto
velleitaria, ché per staccare Indurain bisogna inventare qualcosa che nemmeno
il creativo, incontenibile, a tratti folle Chiappucci è mai riuscito a scovare.
Incuriosisce piuttosto la preparazione di Bugno. Già tipo ombroso di suo,
aggiunge mistero a mistero con una preparazione in chiaroscuro negli undici
mesi che precedono la corsa gialla: ad agosto 1991 vince la classica di San
Sebastian, in riva all’Atlantico, proprio lì donde partirà la Grande Boucle dell’anno
dopo; a settembre vince il Mondiale su strada a Stoccarda, infilando in volata
Stephen Rooks e lo stesso Indurain ma alzando le mani troppo presto e
rischiando di finire uccellato a sua volta sul millimetri estremi della linea
di traguardo. Poi sparisce. Forte di questi due auspici (San Sebastian, e
davanti a Indurain) entra in un lungo periodo di latenza che culmina nella
scelta di non partecipare al Giro del ’92 e lasciare che sia Chiappucci a
venire messo sulla graticola. Decide insomma di diventare Lemond e come lui
salta la corsa rosa; poiché il Mondiale l’ha vinto, il Giro anche, il tricolore
pure, sceglie di investire tutte le forze della primavera nella preparazione
della corsa estiva. A San Sebastian si vedrà.
Il 4 luglio, nei Paesi Baschi, Indurain riparte esattamente
da dove aveva concluso: va più forte persino di Thierry Marie, vince il prologo
e dà già 12” a Bugno e 14” a Lemond. Giallo era partito e giallo è arrivato, ma
sa che tenere la maglia dal primo all’ultimo giorno è impresa sfiancante. Come
tutti i grandi generali, Indurain è prudente e lascia che alla tappa successiva
Alex Zülle, l’occhialuto svizzero che lo segue a 2” in classifica, vada a
prendersi un abbuono intermedio sufficiente a scavalcarlo. Poi, quando arriva
l’Alto de Jaizkibel, sul quale Bugno aveva fatto danzare la furlana in agosto,
si forma un gruppetto con gli attaccanti più in forma: c’è Bugno, ovviamente,
c’è Indurain, ci mancherebbe, ci sono Chiappucci e Chioccioli, c’è Breukink, c’è
Leblanc. Manca solo Greg Lemond. È la fine di una storia d’amore; il Tour sa
essere fedele per anni ma all’improvviso si rivela volitivo e cambia i suoi
favori. Lo Jaizkibel sancisce che il tempo di Lemond è finito (dopo di lui
nessun altro americano vincerà il Tour de France) anche se nella discesa il
gruppo tornerà compatto.
Si annunzia dunque un Tour scoppiettante, come conferma il
successivo arrivo a Pau di una fuga bidone, in cui si rivela Richard Virenque:
con gli altri due fuggitivi prende un margine massimo di 22’ e al traguardo, dopo
235 km di avanscoperta, guadagna la maglia gialla arrivando con 5’ di vantaggio
su un gruppetto così composto, in ordine di volata: Bugno, Chiappucci, Mottet,
Indurain. Sono passati due giorni e i duri hanno già cominciato a giocare. In
classifica dietro Virenque c’è Indurain a 4’34”, Bugno lo segue due secondi
appresso e dà l’impressione di sfidarlo alla pari, Chiappucci è quinto a cinque
minuti e Lemond, ancora inconsapevole del proprio funerale, decimo con lo
stesso tempo di un onesto pedalatore che si chiama Pascal Lino. Questi il
giorno dopo sorprende il mondo della birota infilandosi in un’altra fuga
bidone, arrivando con 7’ di vantaggio a Bordeaux non avendo tirato per un metro
in quanto compagno di squadra di Virenque e sfilandogli la maglia gialla. Bugno,
come Mao, potrebbe dire che la situazione è eccellente poiché grande è la
confusione sotto il cielo di Francia: non essendoci squadra padrona e cambiando
leader oggi, cambiandolo domani, un bel giorno la maglia gialla potrebbe
toccare a lui. Se lo meriterebbe. A Libourne la sua Gatorade sfodera una prova
maiuscola, perdendo qualche secondo dalla Carrera ma guadagnando mezzo minuto
sulla Banesto: ora in classifica c’è davanti lui, con 14” sul rivale italiano e
27” sul mammasantissima ispanico; ma non casca davanti a tutti perché lo
precedono i trionfatori delle fughe bidone, Lino per cinque minuti e Virenque
per tre. Il giorno dopo, a Wasquehal sul Passo di Calais, arriva un’altra fuga
con vantaggio cospicuo e Bugno viene scavalcato anche da Bauer e Heppner, fermi
restando i rapporti di forza fra i favoriti. A Bruxelles Chiappucci capisce
l’andazzo e s’infila in una fuga pure lui (c’è anche Lemond); Bugno è troppo
timido o forse un po’ snob per mettersi a correre dietro alla madness of the crowd: resta tranquillo a
marcare a uomo Indurain e con lui arriva a quasi due minuti di distanza.
Evidentemente ritiene che la corsa sia affare fra loro due; probabilmente non
gli pesa più di tanto che la classifica, a sera, dica Chiappucci terzo a 3’34”,
Lemond addirittura quarto a 4’29”, Bugno settimo aggrappato stretto al mezzo
minuto scarso di margine su Indurain.
Nel disinteresse dei pretoriani della Banesto continuano ad
arrivare al traguardo fughe su fughe fino a che, alla nona tappa, non arriva la
cronometro del Lussemburgo. Sessantacinque chilometri al termine dei quali
andrebbero stilate due classifiche. Una dovrebbe recitare: vincitore Armand De
Las Cuevas, il francese stempiato col cognome spagnolo, dietro di lui Bugno a
41”, Lemond a 1’04”, Lino a 1’06” e così via. L’altra classifica dovrebbe
includere solo e soltanto Miguel Indurain, che fa corsa a sé vincendo con tre
minuti di vantaggio sul compagno di squadra De Las Cuevas, 3’41” su Bugno,
4’04” su Lemond, 4’06” su Lino e così via. Indurain è inumano. Indurain ha
percorso il primo terzo di gara alla media di 57 chilometri orari. Indurain va
in moto, non in bicicletta. Non prende la maglia solo perché il colore giallo
dà forze suppletive alla corsa disperata di Lino, che buon corridore quantunque
sa di avere i giorni contati pur non sapendo quanti: Indurain lo ha nel mirino,
a un minuto e mezzo, e alla peggio gli basta aspettare la cronometro conclusiva
per papparselo. In mezzo, però, ci sono le montagne.
Ci si arriva con calma, andando prima verso le Alpi, dopo
tre tappe finalmente normali. Il menu del 18 luglio prevede Saisies, Iseran e
Sestriere, anzi, Sestrières. Chiappucci passa in testa a tutti e tre i colli per
rafforzare la leadership nella classifica degli scalatori, inanellando 125 km
di fuga secondo quella che al Tour di quest’anno appare un’usanza. Sulla
seconda cima Bugno continua a marcare Indurain: è sicuro che stavolta
Chiappucci vada a schiantarsi, nonostante che abbia accumulato cinque minuti di
vantaggio, e che vada fatta la corsa al ritmo del navarro. Sbaglia, bisognava
attaccare subito, se si avevano gambe; era l’unico grimaldello per far saltare
il ciclismo razionale di Indurain, contrapporre al suo cronometro di implacabile precisione un orologio squagliato dal sudore e dalla fatica immane. Bugno e
Indurain gambe ne hanno: iniziano la rimonta sul Moncenisio e, man mano che la
cima del Sestriere s’avvicina, il vantaggio di Chiappucci s’assottiglia
visibilmente. Sull’ultima salita Indurain passa davanti a Bugno e piazza una
progressione cingolata. All’arrivo paga 1’45” da Chiappucci ma nei chilometri
conclusivi è riuscito a dare un minuto abbondante a Bugno, colpito e affondato.
Fra la crono e la prima salita vera, la superiorità mostrata da Bugno per
undici mesi e la scelta di puntare tutto sul Tour per giocarsela alla pari sono
andate a farsi benedire: in classifica, Indurain ha 1’42” su Chiappucci e 4’20”
su Bugno.
Il giorno dopo però c’è l’Alpe d’Huez, preceduta da
Monginevro, Galibier e Crox de Fer. Bugno ha vinto lì nelle ultime due edizioni
e tenta la terza impresa; anzi la tenta in grande, negli ultimi dieci
chilometri del Galibier che com’è noto sono lunghissimi. Si porta via un
gruppetto con compagni di razza come Chioccioli e Fignon in grado di aiutarlo
nell’ascesa, staccando Indurain di un minuto e mezzo: ci sono altre due
montagne per accumulare altri tre minuti e vestirsi di giallo come fece
Chiappucci, come ha fatto Virenque, come hanno fatto Pascal Lino e tanti altri
nomi ben più dimenticabili. Così ragiona Bugno e rimuginando s’attarda; in cima
Chioccioli gli dà un mezzo minuto, poi in discesa Chiappucci e Indurain
iniziano a fare il diavolo a quattro e se lo rimangiano prima della Croix de
Fer. La salita ricomincia e si stacca, in discesa rincorre e rientra ma l’Alpe
d’Huez stavolta non è amica, è un Golgota. In cima perde nove minuti dal
vincitore Hampsten, quello del Gavia nevoso, e sei da Chiappucci e Indurain
appaiati; in classifica da terzo diventa quinto, a 10’9” dalla maglia gialla.
Nel frattempo Lemond ha approfittato di un rifornimento per ritirarsi, ironia
della sorte, schiantato dall’inseguimento a Bugno sul Galibier.
A una manciata di tappe dal termine, di cui una cronometro a
immagine e somiglianza di Indurain, resta dunque una faccenda fra Chiappucci e
il navarro, che si marcano a Saint Etienne e a La Bourboule. Qui arrivano in
gruppetto e Bugno è con loro, prova d’orgoglio. Solo a Tour, diciottesima
tappa, si rivede una volatona in questo Tour impazzito; segue, a Blois, il
temuto contre-la-montre. I tifosi di Bugno, che condividono il suo carattere
acuto e sensibile, sanno commuoversi e lo fanno senza meno vedendolo sfrecciare
dando due minuti a Chiappucci, quattro a Lino che lo precedeva in classifica e
cinque ad Hampsten che era terzo. Davanti a lui, sai che sorpresa, arriva
Indurain, con soli 40” di vantaggio; se la corsa fosse durata duecento metri di
più, lo spagnolo avrebbe riacciuffato Chiappucci (che chiude a 2’53”) per la
seconda volta in stagione offrendo una replica con colori diversi.
Finisce alla Défense, il quartiere futuribile dove Parigi
sembra Seul e dove campeggia un nuovo spigolosissimo arco di trionfo sotto il
quale, spiegano le guide, potrebbe infilarsi con comodo tutta Notre-Dame. Alla
partenza della tappa-sfilata che porterà sui Campi Elisi Indurain ha 4’35” di
vantaggio su Chiappucci e 10’49” sul povero Bugno, nonostante l’indomita coda.
Gli altri non hanno distacchi, hanno fusi orari. Sul podio sorridono tutti e
tre, perfino Indurain che è uno che non cambia mai espressione.
(3-continua)
mercoledì 22 luglio 2015
La sentenza della Cassazione che consente di cambiare sesso all'anagrafe senza ricorrere a un'operazione chirurgica sui genitali non solo instaura l'armonia definitiva fra soma e psiche, per utilizzare termini degni di un opinionista di Repubblica, ma riconduce testualmente la "percezione di una disforia di genere" (ossia, tradotto dal giuridichese, sentirsi femmine anche se si è maschi o viceversa) entro la sferra del "percorso soggettivo" (ossia pensare ciascuno per sé, alla cazzo). Ciò apre scenari di indefinito miglioramento della qualità della vita e non solo nel campo sessuale, che è il meno: io medesimo sono in procinto di recarmi presso il mio Dipartimento in Università per richiedere, sentenza della Cassazione alla mano, che mi vengano versati gli emolumenti regolarmente spettanti a qualsiasi professore ordinario poiché tale mi sento, nella percezione di una disforia professionale entro la sfera di un mio percorso soggettivo.
Niente più coltelli né nastro isolante per i futuri stupratori: per trasformare un "no" in un "trombiamo" basterà dichiararsi consapevoli della percezione di una disforia sentimentale con la sconosciuta rinchiusa in uno scantinato, e idem la compilazione dei moduli per le tasse sarà facilitata dal poter dichiararci tutti intimamente sicuri di essere nullatenenti. Per risolvere la crisi greca basterà che tutti i greci si convincano di essere tedeschi, pretendendo il passaporto con l'aquila sopra, mentre in occasione delle prossime Olimpiadi è già stato ordinato il conio di un numero di medaglie d'oro pari al numero dei concorrenti in ciascuna disciplina, poiché va bene che l'importante è partecipare ma nella percezione di una disforia agonistica tutti saranno convinti di avere vinto.
I più sottili controbatteranno che la sentenza dei giudici della Cassazione può essere legittimamente annullata da una corte di tizi di parere opposto benché fermamente persuasi di essere loro i veri giudici della Cassazione. Dettagli. Il punto chiave è che gli illuminati giudici hanno finalmente preso atto di quanto riferito da Freud* riguardo a un paziente la cui vita era resa impossibile dalla tremenda convinzione che qualsiasi suo pensiero godesse di realtà oggettiva al di fuori dalla sua testa, e che quindi se immaginava che la madre fosse morta credeva di averla uccisa per davvero, o se immaginava un grifone nell'armadio non riusciva più ad aprire le ante per timore che balzasse fuori. Il paziente, con grande ammirazione di Freud, aveva denominato tale peculiarità "onnipotenza dei pensieri": all'epoca era una malattia, da ieri è legge.
*nota: Così al volo no ricordo in quale opera; a occhio direi o nel Disagio della civiltà o in Totem e tabù.
Niente più coltelli né nastro isolante per i futuri stupratori: per trasformare un "no" in un "trombiamo" basterà dichiararsi consapevoli della percezione di una disforia sentimentale con la sconosciuta rinchiusa in uno scantinato, e idem la compilazione dei moduli per le tasse sarà facilitata dal poter dichiararci tutti intimamente sicuri di essere nullatenenti. Per risolvere la crisi greca basterà che tutti i greci si convincano di essere tedeschi, pretendendo il passaporto con l'aquila sopra, mentre in occasione delle prossime Olimpiadi è già stato ordinato il conio di un numero di medaglie d'oro pari al numero dei concorrenti in ciascuna disciplina, poiché va bene che l'importante è partecipare ma nella percezione di una disforia agonistica tutti saranno convinti di avere vinto.
I più sottili controbatteranno che la sentenza dei giudici della Cassazione può essere legittimamente annullata da una corte di tizi di parere opposto benché fermamente persuasi di essere loro i veri giudici della Cassazione. Dettagli. Il punto chiave è che gli illuminati giudici hanno finalmente preso atto di quanto riferito da Freud* riguardo a un paziente la cui vita era resa impossibile dalla tremenda convinzione che qualsiasi suo pensiero godesse di realtà oggettiva al di fuori dalla sua testa, e che quindi se immaginava che la madre fosse morta credeva di averla uccisa per davvero, o se immaginava un grifone nell'armadio non riusciva più ad aprire le ante per timore che balzasse fuori. Il paziente, con grande ammirazione di Freud, aveva denominato tale peculiarità "onnipotenza dei pensieri": all'epoca era una malattia, da ieri è legge.
*nota: Così al volo no ricordo in quale opera; a occhio direi o nel Disagio della civiltà o in Totem e tabù.
martedì 21 luglio 2015
Il problema non è la Regina che a sette anni fa tre saluti nazisti saltellando; il problema è che il video storico reso pubblico dal Sun ha portato l'Inghilterra a interrogarsi sulla percezione della propria storia. Sul Foglio in edicola oggi faccio la ronda dei pareri contrastanti sulle simpatie per Hitler dell'aristocrazia britannica, sui sospetti di Churchill, sulla nazionale inglese a Berlino, sulla trasparenza degli archivi reali e sulla battaglia editoriale fra Murdoch e il Daily Mail.
lunedì 20 luglio 2015
Le Tour, jamais (2)
Per la prima puntata della storia dell'uomo che riuscì a non indossare mai la maglia gialla basta cliccare qui.
I Mondiali del 1990, quelli di ciclismo però, rinnovano lo
scontro fra Bugno e Lemond. Gli italiani che si svegliano a ora antelucana per
godersi la diretta da Utsunomiya devono accontentarsi di una volata per la
medaglia di bronzo, poiché otto secondi prima sono già arrivati Rudy Dhaenens e
Dirk De Wolf, esultando in sincrono perché entrambi belgi. Come che sia, la
volata del gruppetto degli inseguitori la vince Bugno davanti all’americano
iridato in carica; il patriarca Alfredo Martini ha convocato in azzurro anche
Chiappucci che a sua volta regola la volata del gruppo dei ritardatari, il
tutto nel giro di meno di un minuto. A fine ottobre Bugno si accaparra anche la
platonica benché redditizia Coppa del Mondo, che combina i risultati delle
classiche: è l’unico ad averne vinte due, la Milano-Sanremo dominata in
primavera e l’ormai desueta Leeds-Wincanton Classic in estate. Al Giro
dell’anno dopo, in prevedibile assenza di Lemond, i giornali puntano tutto fra
la sfida fra Bugno e Chiappucci, finalmente di fronte senza maschere né
scusanti. Alla fine vince Fausto Chioccioli, detto Coppino per l’avvenenza
fisica. Chiappucci fa il regolarista: non alza le braccia neanche una volta ma
riesce a classificarsi secondo nella generale e a vincere la maglia ciclamino
del meglio piazzato nelle tappe. E Bugno? Vince due tappe, al solito, ma rasenta
lo psicodramma: distanziato da Chioccioli in classifica nelle prime tappe, recupera
il distacco in una magistrale cronometro da Collecchio a Langhirano salvo un
unico fatale secondo, che lo priverà del ritorno in rosa e lo farà affondare sotto
il peso del rovello un paio di giorni dopo sul Sestriere accumulandogli addosso
minuti su minuti.
Bugno, si dice, in realtà pensa al Tour. Deve rifarsi dallo
smacco subito da Chiappucci in Francia, per questo ha mollato gli ormeggi in
Italia ma una settimana prima del prologo mette in chiaro le intenzioni
vincendo il campionato nazionale e indossando la maglia tricolore. La Grand
Boucle parte a luglio con cinque km di crono a Lione e vince Monsieur Prologue Thierry Marie:
Chiappucci si difende, perdendo 15”; Bugno, in teoria miglior amico della
specialità, ne perde tre in più. Sarà dura, tanto più che il giorno dopo Lemond
è già maglia gialla, anche se la cede subito con la cronosquadre dell’Eurexpo.
A Digione il naso di Bugno spunta davanti al gruppo a 4 km dal traguardo ma
millecinquecento metri dopo si lascia riprendere dal gruppo e finisce in
volata; idem fa Chiappucci il giorno dopo verso Reims, ma al traguardo ne
mancano 170. Sono due contrafforti psicologici, uno per il quale il traguardo
non è mai troppo vicino e l’altro per il quale non è mai troppo lontano. L’idea
è che con l’innocuo Rolf Sorensen in maglia gialla al posto di Lemond, che pure
è lì a 10 secondi, sia un Tour anarchico, senza padroni, e che valga la pena di
provare all’impazzata. Chiappucci ci ritenta il giorno dopo ancora, a 20 km da
Valenciennes, ma niente. Ci riesce invece Thierry Marie a Le Havre: vince da
solo e prende la maglia con un buon minuto di margine. Non durerà.
Il giorno seguente è infatti previsto il contre-la-montre di Alençon, e sono
molti più chilometri di quanti Monsieur
Prologue sia in grado di gestire per conto proprio: addirittura 73. Lemond
va meglio di tutti: dà un minuto a Breukink, quasi un minuto e mezzo a un Bugno
ancora disorientato, due minuti a Delgado, quattro a Chiappucci che col
cronometro ha crisi di rigetto. Lemond si riprende la maglia e mette un bel
minuto cuscinetto fra sé e il resto del mondo. Il fatto è che ad Alençon Lemond
va meglio di tutti tranne uno, che gli dà quegli otto secondi che di per sé non
significano niente (in classifica è quarto a oltre due minuti) ma che letti a
posteriori segnano l’inizio di una nuova pagina nella storia del ciclismo. La
crono di Alençon è la prima a essere vinta da Miguel Indurain; altre
seguiranno.
Trascorse le consuete tappe di trasferimento che il Tour
organizza per non avere sulla coscienza le coronarie dei telespettatori, si
arriva ai piedi dei Pirenei con questa situazione: Lemond giallo, Indurain
terzo a 2’17”, Bugno quinto a 3’51”, Chiappucci disperso. Per la dodicesima
tappa si sconfina a Jaca, in Aragona. Gli uomini di classifica si studiano e va
al traguardo una fuga di buoni ruotatori, regolata da Charlie Mottet che aveva
vinto anche due giorni prima; in mezzo c’era il riposo. Lemond perde la maglia
ma conserva saldamente la leadership dei seri pretendenti e il giorno dopo
attacca sul Tourmalet. Si porta via un gruppetto con la maglia gialla, Luc
Leblanc, che poi andrà in crisi perdendo un quarto d’ora; ma si porta anche
cattive compagnie come Bugno, Chiappucci e Indurain, il quale approfitta di un
momento di debolezza dell’americano, leggermente staccato in cima per lo
sforzo, per attaccare nella discesa sul Col d’Aspin. Chiappucci, se non è
davanti lui, non resiste; e prima che la salita ricominci ha già ripreso
Indurain mentre dietro Bugno procede del suo passo, attento a non sprecare
energie come se non ci fosse un domani. Mentre davanti Chiappucci si porta al
traguardo Indurain il quale, come da usanza generale e proprio futuro costume,
cederà cavallerescamente la vittoria all’accompagnatore prima di indossare la
maglia gialla, dietro di loro Bugno piazza una progressione mica da ridere che
fa boccheggiare tutti i suoi compagni d’inseguimento, e li stacca uno a uno
come soleva fare al Giro trionfale dell’anno prima. Risultato, a sera Bugno è
terzo in classifica a 3’10” da Indurain, Chiappucci quarto a 4’6”, Lemond,
giunto sconsolato a Val-Louron, quinto a 5’8”.
Altre tappe di trasferimento, nell’ultima delle quali Bugno
e Chiappucci s’inventano un attacco in simultanea che fallisce ma stanca la
Banesto di Indurain. I pezeteri spagnoli nel finale non hanno le gambe per
andare a riprendere una fuga dell’indomito Lemond: l’americano guadagna una
ventina di secondi psicologici. Nulla in confronto all’altimetria del giorno
dopo, che prevede l’Alpe d’Huez, cima amica di Bugno. A uno a uno li stacca
tutti. Il primo è Lemond, poi Fignon, poi Delgado. Gli restano attaccati
Chiappucci, Leblanc e Indurain. Se ne disfa in quest’ordine, continuando la
progressione con sguardo impenetrabile dietro gli occhialoni scuri; ma Indurain
gli è attaccato col mastice e si limita a lasciargli un secondo di sicurezza in
vista della linea del traguardo. Chiappucci perde 43” e in classifica è terzo a
4’48”; Bugno, secondo a 3’9”. Se Indurain fosse un outsider, qualcuno pensa, la
maglia gialla potrebbe essere a portata di mano; ma la successiva tappa di
Morzine, chiusa nella stretta della Banesto, serve solo a eliminare
definitivamente Lemond che perde altri 7’. Chiappucci ha abbandonato i sogni di
gloria gialli e si concentra su quelli a pois, impostando le tappe successive
in modo tale da accumulare punti in salita e accaparrarsi definitivamente la
maglia di miglior scalatore: rivoluzionario vicino ai Gran Premi della
Montagna, si ammansisce non appena la pendenza s’inverte.
Manca solo l’ultima cronometro, la consueta ordalia del
sabato che stavolta si corre da Lugny a Mâcon per una distanza di 57 km. Lemond
va sparato ed è saldamente primo, con un minuto su Ekimov, quando mancano
all’arrivo solo i tre capoclassifica. Chiappucci, rinfrancato dalle montagne
che hanno spaccato le gambe altrui, arriva a venti secondi dall’americano e
conferma il terzo posto in classifica con un minuto e mezzo di vantaggio
sull’indomito Mottet che fino al mattino lo tallonava. Arriva Bugno ed è primo,
con venti secondi di vantaggio su Lemond, ma ha la consueta aria triste perché
prima ancora di scendere di sella sa già di non avere vinto: né il Tour, ché
dare tre minuti a Indurain a cronometro si è rivelata impresa lunare, né la
tappa, perché Indurain, nella sua aerodinamicità impassibile ed elegante, arriva
dando mezzo minuto a lui e distacchi più o meno abissali a tutti. Finisce sui
Campi Elisi con lo spagnolo vincitore, di fatto mai in discussione nelle
novantasei ore di corsa; Bugno ottimo secondo con al petto la medaglia della
seconda Alpe d’Huez di fila ma senza essere mai arrivato ad annusare davvero il
colore giallo; Chiappucci terzo a quasi sei minuti ma raggiante nella maglia a
pallini rossi. Indurain non l’aveva previsto nessuno, e il suo teorico capitano
Delgado è nono a venti minuti; la sfida, dicono, è rimandata all’anno venturo
quando ci saremo organizzati di conseguenza.
(2-continua)
sabato 18 luglio 2015
"L'importante nella vita non è chi si ama; l'importante è amare": se sognate di scrivere un romanzo con dentro frasi del genere, sappiate che l'ha già scritto Proust. Sul sito del Foglio trovate i miei consigli per difendervi dagli effetti collaterali della Recherche; gratis, per giunta.
venerdì 17 luglio 2015
Va bene, vostra nonna vi viziava; e allora? O avete mangiato la stessa merendina di quando andavate alle elementari, o in uno scatolone avete ripescato una vetusta fialetta puzzolente che vi ha scatenato le intermittenze del cuore: ciò nondimeno della vostra Recherche non frega niente a nessuno, quindi anche se ci state pensando non scrivetela. Mai. Questa, in sintesi, la guida per sottrarsi agli effetti collaterali della lettura estiva di Proust; i dettagli sul Foglio in edicola.
giovedì 16 luglio 2015
Questa settimana è iniziato (e per certi versi è già finito) il vero Tour de France, quello con salite mitologiche quali il Tourmalet di ieri o Plateau de Beille oggi. Chi però sostiene che guardare il ciclismo sia noioso, perché per ore e ore non accade niente e poi all'improvviso la corsa si rivoluziona incomprensibilmente nel momento esatto in cui sei andato a prendere qualcosa dal frigorifero, sbaglia in quanto non considera che il fascino di una gara a tappe sta nel basso continuo, nel sottofondo di storia e digressione che accompagna lo svolgersi della trama e la lenta attesa che qualcosa accada. Il ciclismo è Tristram Shandy. Ieri, ad esempio, vi siete persi i due cronisti Rai - Francesco Pancani e Silvio Martinello - che dopo ore di narrazione disquisivano sui collant per uomini e su cosa pensino le mucche; vi pare niente? Ve lo immaginate durante una partita di calcio? O durante un romanzo? Non ci sarebbe tempo. Guardare la corsa è come buttare l'occhio in un microscopio: si coglie un agitarsi non sempre immediatamente interpretabile, che acquisisce forma e coerenza solo dopo qualche tempo e non necessariamente a fine tappa. Io, per esempio, sto iniziando adesso a capire i Tour di venticinque anni fa; per questo ripesco qui a mo' di lettura estiva gli annali che avevo pubblicato su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport per raccontare come il miglior ciclista della mia infanzia (tranne uno) sia riuscito nell'impresa di non indossare nemmeno per un giorno quella stessa maglia gialla che ha avuto più di un portatore forse indegno, o almeno sorprendente; si tratta di cinque puntate che avevo intitolato
La differenza fondamentale che intercorreva fra Gianni Bugno e Claudio Chiappucci era che Bugno era come il gentiluomo che s’incravattava e si preparava in ogni dettaglio per inginocchiarsi davanti a una donna, con tutto il rischio che magari costei gli rifiutasse l’anello; Chiappucci era come il gentiluomo che tocca il culo a tutte tanto prima o poi qualcuna ci sta. Quando arrivano al Tour del 1990, il momento sembra d’oro per entrambi: al Giro d’Italia Chiappucci ha vinto la maglia verde di miglior scalatore da semisconosciuto gregario nella Carrera di Flavio Giupponi mentre Bugno ha vinto il Giro in carrozza, con sei minuti e mezzo di vantaggio su Charly Mottet, indossando la maglia rosa dal prologo di Bari alla passerella di Milano e, per soprammercato, anche quella ciclamino del meglio piazzato nelle tappe. Il favorito del Tour 1990 è il campione uscente Greg Lemond, l’americano che inventò la prassi di correre solo in Francia e a luglio, e di tanto in tanto impegnarsi per il Mondiale agostano, rimediando cospicue figuracce al Giro: a Milano, mentre il timido Bugno veniva costretto dai compagni di squadra a indossare corona ed ermellino regali, Lemond contemplava un mesto centocinquesimo posto.
Le Tour, jamais
La differenza fondamentale che intercorreva fra Gianni Bugno e Claudio Chiappucci era che Bugno era come il gentiluomo che s’incravattava e si preparava in ogni dettaglio per inginocchiarsi davanti a una donna, con tutto il rischio che magari costei gli rifiutasse l’anello; Chiappucci era come il gentiluomo che tocca il culo a tutte tanto prima o poi qualcuna ci sta. Quando arrivano al Tour del 1990, il momento sembra d’oro per entrambi: al Giro d’Italia Chiappucci ha vinto la maglia verde di miglior scalatore da semisconosciuto gregario nella Carrera di Flavio Giupponi mentre Bugno ha vinto il Giro in carrozza, con sei minuti e mezzo di vantaggio su Charly Mottet, indossando la maglia rosa dal prologo di Bari alla passerella di Milano e, per soprammercato, anche quella ciclamino del meglio piazzato nelle tappe. Il favorito del Tour 1990 è il campione uscente Greg Lemond, l’americano che inventò la prassi di correre solo in Francia e a luglio, e di tanto in tanto impegnarsi per il Mondiale agostano, rimediando cospicue figuracce al Giro: a Milano, mentre il timido Bugno veniva costretto dai compagni di squadra a indossare corona ed ermellino regali, Lemond contemplava un mesto centocinquesimo posto.
La corsa gialla non è un obiettivo impossibile. Al prologo
di Futuroscope, tuttavia, Bugno cede i primi 17” a Lemond; recuperabilissimi,
non fosse che accade l’imprevedibile. Il giorno dopo, ad appena 6 km dalla
partenza di Futuroscope, Claudio Chiappucci rende storica una tappa
insignificante, anzi una semitappa, andando in fuga con Steve Bauer, Frans
Maassen e Roman Pensec. La fuga raggiunge un vantaggio massimo di 13’ e nessuno
si organizza per riacchiapparla, in quanto dopo pranzo è prevista una
cronosquadre e sforzarsi al mattino significa sfaldarsi al pomeriggio, nella
seconda semitappa. I quattro arrivano al traguardo, sempre a Futuroscope, con
più di dieci minuti di vantaggio sul gruppo; vice Maassen, Bauer indossa la
maglia e un’Italia impigrita dalle vacanze scopre un nuovo modo per riempire i
pomeriggi, oltre alle ultime curve di Italia 90: l’assalto al Tour di Claudio
Chiappucci, scalatore sottovalutato, un quarto di secolo dopo la vittoria di
Felice Gimondi.
La corsa salta. Una settimana dopo, alla vigilia della crono
di Epinal, Chiappucci ha un minuto di ritardo dalla maglia gialla e nove di
vantaggio su Lemond, che in 61 km non riesce a dargli più di un mezzo minuto;
Gianni Bugno invece fa il suo dovere e arriva terzo, staccato di una ventina di
secondi da un promettente specialista del contre-la-montre che si chiama Miguel
Indurain, gregario di Pedro Delgado detto Perico. La scalata di Chiappucci
continua. Alla decima tappa, sul Monte Bianco, è secondo dietro la nuova maglia
gialla Pensec; il giorno dopo Bugno vince
allo sprint su Lemond all’Alpe d’Huez. Sembra che ci siano due corse in
una: davanti il regolamento di conti fra i protagonisti della fuga bidone di
Futuroscope e dietro la sfida fra il vincitore del Giro e quello del Tour,
segnati dal gravame del tempo perso nella famigerata semitappa; la classifica vede infatti Chiappucci secondo a
1’28”, Lemond terzo a 9’04”, Bugno quinto a 10’39”. Per Bugno la situazione è
paradossale. Ha vinto una tappa storica, se la gioca alla pari col detentore e,
se non ci fossero quei due col vantaggio da misurare con la sveglia anziché col
cronometro di precisione, la maglia gialla sarebbe a portata di mano al costo
di un po’ di coraggio. Dal 1975 non l’ha indossata nessun italiano; l’ultimo è
stato Francesco Moser.
Il giorno dopo altra cronometro, a Villard-de-Lans, con un
chilometraggio più umano: solo 33 km. Vince Breukink; Indurain arriva terzo
dietro al proprio capitano Perico Delgado; Lemond è quinto a 56” ma non riesce
a darne che 9 a un Chiappucci galvanizzato fino al parossismo. E Bugno?
Disperso. Paga lo sforzo dell’Alpe d’Huez, paga il distacco dal rivale
casinista, paga la prospettiva di una maglia che si avvicina beffarda al
corridore più diverso da lui e perde 2’42”. Peggio, solo Pensec: dopo Breukink
sale quindi sul podio per indossare la maglia gialla Claudio Chiappucci. Sa che
di lì in poi sarà un’erosione. Dato per scontato il progressivo tracollo di
Pensec, secondo a 1’17” e chiamato in Francia per fungere da gregario nella
squadra di Lemond e non per fare il gradasso, il resto dei rivali lo vede col
binocolo: terzo Breukink a 6’55”, quarto Lemond a 7’27”, quinto Delgado a 9’2”.
Bugno galleggia a 10’48”, settimo. L’Italia lo ignora per ammirare Chiappucci
in giallo, consolandosi dei Mondiali di calcio persi barbinamente e far di
conto su quanti secondi possa permettersi di perdere di tappa in tappa; ne
mancano nove, di cui un’ulteriore cronometro al penultimo giorno. La prima è
traumatica: a Saint-Etienne, in media montagna, Chiappucci viene attaccato da
Pensec, mette la squadra alla frusta e subisce il contrattacco di Lemond, che
si porta appresso Breukink e Indurain. Bugno non c’è (Delgado nemmeno), ma al
traguardo perderanno solo mezzo minuto. I guai sono di Chiappucci che, con la
tattica miope e sconsiderata di inseguire il gregario Pensec, non capisce la
strategia del capitano Lemond e nella bella città della Loira arriverà quasi
cinque minuti dopo di lui. L’erosione è iniziata con la dinamite, i calcoli in
vista dell’ultima crono vanno rifatti drasticamente: Breukink, secondo, incombe
a 2’2”, Lemond, vieppiù minaccioso, a 2’34”. Bugno è sesto a oltre 6’; il
giorno dopo attacca e arriva terzo a Millau, rosicchiando 9 inutili secondi a
Lemond che però ne rosicchia 13, piccoli ma sentiti, a Chiappucci.
Non è più il Tour che ci si aspettava secondo il consueto
menu ammannito dagli organizzatori, con le disfide a cronometro e le imprese
disperate in salita diluite fra trasferimenti cicloturistici per i cacciatori
di gloria giornaliera. Ogni tappa può essere leggendaria; Chiappucci, giallo e
curvo sulla bicicletta rovente, viene presentato agli Italiani come un eroe
della resistenza contro l’americano biondo e bionico, che si impegna poco e
vince sempre. A Revel un buchino nel gruppo fa riguadagnare 3” a Chiappucci. A
Luz Ardiden, dopo aver scalato col d’Aspin e Tourmalet, Indurain vince una
tappa che negli anni successivi sarà letta con occhi diversi, come prima
zampata di un dominio. Dietro di lui, Lemond; Chiappucci arriva tardi, a oltre
due minuti. Il cronometro scorre in basso sugli schermi mentre si moltiplica il
countdown: ha ancora venti secondi di vantaggio, ne ha dieci, sette, sei.
All’arrivo sono cinque, miserrimi ma sufficienti a mantenere la maglia gialla
mentre Bugno va alla deriva insieme a Breukink, perdendo più di quattro minuti.
La tappa successiva parte da Lourdes e Chiappucci riesce a
conservare l’esiguo vantaggio. Poi si arriva a Pau e Bugno vince di nuovo,
stavolta in pianura, ma ormai corre per la gloria poiché in classifica è sesto
a 7 minuti e mezzo. I 5” di Chiappucci su Lemond resistono anche il giorno
dopo, a Limoges. Non si capisce chi dei due stia sfibrando l’altro: l’americano
sa di avere dalla propria la cronometro della penultima tappa; l’italiano, che
per il sembiante slanciato è stato ribattezzato Andreotti, sa che il potere
logora chi non ce l’ha. Arriva il giorno decisivo, sabato 21 luglio 1990. Sono
45,5 km. A Bugno, sconfortato se guarda la classifica e sazio se guarda alle
tappe, bastano per perdere un’altra posizione e scivolare al settimo posto.
Chiappucci fa di peggio; a un decimo di corsa ha già perso l’ultimo soffio del
vantaggio di Futuroscope che lo aveva fin lì conservato in giallo e Lemond può
permettersi di non forzare. L’americano arriva comodo al traguardo con quasi un
minuto di ritardo da un Breukink in grande spolvero. Chiappucci perde 3’18” e a
un certo punto sembra poter lasciarsi sfuggire anche la seconda posizione: con
tanto fiatone conserva 13” di margine sul vincitore di tappa olandese.
Il giorno dopo, come da tradizione, è passerella sui Campi
Elisi. Greg Lemond vince il terzo Tour, il più ingiusto forse e sicuramente il
più assurdo, molto probabilmente il più voluto e il più sudato. Chiappucci
arriva secondo a 2’16”, un distacco che – se letto solo a classifica ultimata –
non rende giustizia all’apoteosi coronarica della settimana in giallo. Bugno,
settimo a 9’39”, mastica amaro perché, con due tappe vinte e una corsa di buon
profilo sia in montagna sia a cronometro, è stato condannato all’ombra mentre
un rivale inatteso e disorganizzato carpiva i cuori delusi dalle notti tragiche
di Italia 90. Giorno dopo giorno, salendo sul podio con sicurezza sempre più
risicata, Claudio Chiappucci si lisciava addosso la maglia che Gianni Bugno
forse sentiva spettare a sé, al dominatore del Giro che aveva fatto capire agli
italiani di avere alfine un nuovo pretendente alla più importante delle corse a
tappe. Invece erano due.
(1-continua)
mercoledì 15 luglio 2015
Si apre un'era di prosperità secondo gli scientisti che, col pacifismo dei tonti, gioiscono perché in un sol giorno scopriamo che c'è vita su un pianeta lontanissimo, sulla cui superficie già ci esercitiamo a disegnare cuoricini, e sigliamo un compromesso con una teocrazia nucleare, che è come consegnare per il buon nome dell'accoglienza il mazzo delle chiavi di casa agli unni o ai visigoti. In effetti il mondo può essere interpretato anche dando una scorsa veloce alle principali notizie sul giornale e tracciando a intuito una linea che unisca puntini distanti. Ad esempio io, se a queste due notizie aggiungo quella del deserto di alte gerarchie ai funerali del cardinale Biffi - l'unico principe cattolico in grado di dire forte e chiaro che se vogliamo sopravvivere dobbiamo ospitare solo immigrati cristiani o cristianizzati perché la sola forma di dialogo vantaggiosa per entrambe le parti è l'evangelizzazione - ho sentito i neuroni tintinnare brindando all'idea geniale e risolutiva di spedire tutto l'Iran su Plutone.
martedì 14 luglio 2015
Lo so, voi adesso state pensando che il "Benvenuto nel regno del cancro" detto a Ivan Basso sia la tipica frase spaccona e autopromozionale da texano disperato ma non rassegnato che consente a Lance Armstrong di continuare a fare ciò che meglio gli è riuscito negli ultimi vent'anni, ossia lo spaccone che si autopromuove. Per il ciclismo Armstrong è il male assoluto: i sette Tour che ha vinto barando gli sono stati revocati e sono rimasti penduli senza alcun nome nell'albo d'oro a perenne memoria e ammonimento ma questo è il meno, poiché riguardo a un'epoca di doping generalizzato e moralmente condonato gli sono state rivolte le ben più gravi accuse di associazione a delinquere e spergiuro, colpe ammesse piagnucolando sulla tv popolare; e come si potrà perdonargli il fatto che lui con tutto quel che ha combinato organizza sgambate amatoriali mentre Pantani per molto meno si trova tre metri sotto terra? Leggendo però la frase che Armstrong ha rivolto a Basso anziché irritarmi mi sono ricordato una lontana tappa del Tour - partenza da Castelsarrasin, salita a La Mongie, 16 luglio 2004 - in cui i due erano arrivati appaiati da soli e Armstrong lo aveva lasciato vincere mentre il cronista, familista e sentimentale al solito degli italiani, ricordava che la mamma di Basso aveva un tumore e che il texano l'aveva aiutata in tutti i modi in cui poteva. Questo a riprova che nessuno è completamente cattivo così come nessuno è completamente buono (non è lo stesso Basso cui davate addosso quando era stato squalificato per doping?): dettagli che si dimenticano facilmente non solo sulla tv popolare ma anche nella vita quotidiana e noiosa, per non parlare dei momenti in cui si emettono sentenze nel breve volgere di un post su facebook. So che state pensando tutt'altro e che sarà arduo giustificarmi ma il "Benvenuto nel regno del cancro" detto da Armstrong mi ha fatto venire in mente la frase del Vangelo in cui i discepoli di fronte a un cieco nato si domandano che colpa abbia per patire tanta disgrazia e Gesù risponde loro: "Non ha peccato né lui né i suoi genitori ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio".
lunedì 13 luglio 2015
Papa Francesco torna dal Paraguay e io non posso che invitarvi a celebrare la visita del primo pontefice gesuita nella nazione che i gesuiti governarono e di fatto inventarono - instaurando nel 1580 delle reducciones in cui cercarono di impiantare sugli indios, fino ad allora allo stato brado, la forma mentis occidentale - leggendo il capitolo della storia universale che Voltaire dedicò specificatamente a "Il Paraguay: la dominazione dei gesuiti in questa parte della terra e le loro dispute con spagnoli e portoghesi". Purtroppo non esiste traduzione di questo libro avventuroso e filante che sarebbe un'ideale lettura estiva, quindi dovrete cercarlo nell'originale francese: si intitola Essai sur les moeurs e il capitolo è il 154.
Apprenderete che per Voltaire il vasto programma dei gesuiti in Paraguay - prendere dei selvaggi e insegnare loro i concetti sconosciuti di tempo, famiglia, lavoro, architettura, nonché i fondamentali della religione cattolica - è "il trionfo dell'umanità". Ai gesuiti riconosce il grande merito "di avere trovato popolazioni selvagge e di averle civilizzate; di averle rese industriose per mezzo dell'istruzione e della persuasione". Lì dove c'erano solo accoppiamenti casuali e cibo quando capitava i gesuiti hanno creato una società. Forse è il più grande monumento al talento gesuitico mai eretto da uno scrittore ostile.
Nondimeno, continua Voltaire, questo "governo unico sulla faccia della terra" è un governo assoluto, l'ultima e più compiuta teocrazia della storia, in cui gli indios sono "schiavi dei gesuiti" e "sudditi dei loro benefattori", legati a doppio filo da una dipendenza che li porta a combattere al loro comando contro gli eserciti di Spagna e Portogallo, rivali in Europa ma in Sudamerica alleati contro lo strapotere della Compagnia di Gesù. E dove trovavano le armi i selvaggi? Facilissimo: i gesuiti insegnavano agli indios a fabbricarle e poi gliele requisivano, salvo riconsegnarle alla vigilia delle battaglie. Questo rendeva i reverendi padri "i re meglio obbediti sulla terra".
Non solo: il Paraguay è stato forse il primo tentativo di comunismo dell'era moderna, grazie all'idea che ciascuno doveva vivere nella casa che s'era fabbricato mentre derrate e beni di prima necessità erano accatastati in magazzini e poi distribuiti dai gesuiti secondo l'equità dei bisogni. Il primo ma non il più riuscito, però, se Voltaire scrive nel Candido che l'economia del Paraguay si basa sul fatto che "los padres hanno tutto e il popolo non ha niente". Come in tutti i comunismi, i gesuiti avevano anche organizzato un capillare sistema di spionaggio, rigidamente gerarchico, così che fossero gli stessi indios a riferire ai missionari cosa facessero gli altri indios che si trovavano sotto il loro controllo; ma i paraguaiani, ed è l'effetto più sbalordente di quest'esperimento politico estremo, erano felicissimi.
Queste notiziole vi sembreranno bastevoli. Se volete saperne di più, potete rileggere il paginone che avevo dedicato al Paraguay sul Foglio, sotto il titolo "I gesuiti al governo". Se volete esagerare, sappiate che in luglio esce sulla rivista napoletana Studi Filosofici un mio approfondito saggio intitolato "Una polemica di Voltaire contro i gesuiti: il caso delle fonti sul Paraguay", ottimo di questa stagione in cui non sempre si riesce a prendere sonno. Se l'argomento vi appassiona, c'è sempre l'autorevolissimo libro L'invenzione del Paraguay di Girolamo Imbruglia (Bibliopolis, 1983); se vi incuriosisce ma non avete tempo, potete sempre guardare il film Mission e un'idea ve la sarete fatta.
Ah, vi svelo il finale: Voltaire scrive il capitolo sul Paraguay nel 1761 ma poi è costretto a cambiare tutto perché nel 1766 l'espulsione dei gesuiti dalla Spagna li fa cacciare anche dai possedimenti d'oltremare, facendoli rientrare dal Sudamerica ed esautorandoli nella nazione stessa che avevano creato loro. Pochi anni dopo la Compagnia di Gesù sarà sciolta da Clemente XIV, l'ultimo papa francescano: e così il cerchio si chiude.
Apprenderete che per Voltaire il vasto programma dei gesuiti in Paraguay - prendere dei selvaggi e insegnare loro i concetti sconosciuti di tempo, famiglia, lavoro, architettura, nonché i fondamentali della religione cattolica - è "il trionfo dell'umanità". Ai gesuiti riconosce il grande merito "di avere trovato popolazioni selvagge e di averle civilizzate; di averle rese industriose per mezzo dell'istruzione e della persuasione". Lì dove c'erano solo accoppiamenti casuali e cibo quando capitava i gesuiti hanno creato una società. Forse è il più grande monumento al talento gesuitico mai eretto da uno scrittore ostile.
Nondimeno, continua Voltaire, questo "governo unico sulla faccia della terra" è un governo assoluto, l'ultima e più compiuta teocrazia della storia, in cui gli indios sono "schiavi dei gesuiti" e "sudditi dei loro benefattori", legati a doppio filo da una dipendenza che li porta a combattere al loro comando contro gli eserciti di Spagna e Portogallo, rivali in Europa ma in Sudamerica alleati contro lo strapotere della Compagnia di Gesù. E dove trovavano le armi i selvaggi? Facilissimo: i gesuiti insegnavano agli indios a fabbricarle e poi gliele requisivano, salvo riconsegnarle alla vigilia delle battaglie. Questo rendeva i reverendi padri "i re meglio obbediti sulla terra".
Non solo: il Paraguay è stato forse il primo tentativo di comunismo dell'era moderna, grazie all'idea che ciascuno doveva vivere nella casa che s'era fabbricato mentre derrate e beni di prima necessità erano accatastati in magazzini e poi distribuiti dai gesuiti secondo l'equità dei bisogni. Il primo ma non il più riuscito, però, se Voltaire scrive nel Candido che l'economia del Paraguay si basa sul fatto che "los padres hanno tutto e il popolo non ha niente". Come in tutti i comunismi, i gesuiti avevano anche organizzato un capillare sistema di spionaggio, rigidamente gerarchico, così che fossero gli stessi indios a riferire ai missionari cosa facessero gli altri indios che si trovavano sotto il loro controllo; ma i paraguaiani, ed è l'effetto più sbalordente di quest'esperimento politico estremo, erano felicissimi.
Queste notiziole vi sembreranno bastevoli. Se volete saperne di più, potete rileggere il paginone che avevo dedicato al Paraguay sul Foglio, sotto il titolo "I gesuiti al governo". Se volete esagerare, sappiate che in luglio esce sulla rivista napoletana Studi Filosofici un mio approfondito saggio intitolato "Una polemica di Voltaire contro i gesuiti: il caso delle fonti sul Paraguay", ottimo di questa stagione in cui non sempre si riesce a prendere sonno. Se l'argomento vi appassiona, c'è sempre l'autorevolissimo libro L'invenzione del Paraguay di Girolamo Imbruglia (Bibliopolis, 1983); se vi incuriosisce ma non avete tempo, potete sempre guardare il film Mission e un'idea ve la sarete fatta.
Ah, vi svelo il finale: Voltaire scrive il capitolo sul Paraguay nel 1761 ma poi è costretto a cambiare tutto perché nel 1766 l'espulsione dei gesuiti dalla Spagna li fa cacciare anche dai possedimenti d'oltremare, facendoli rientrare dal Sudamerica ed esautorandoli nella nazione stessa che avevano creato loro. Pochi anni dopo la Compagnia di Gesù sarà sciolta da Clemente XIV, l'ultimo papa francescano: e così il cerchio si chiude.
domenica 12 luglio 2015
"Cosa essere tu?": a centocinquant'anni dalla pubblicazione di Alice nel Paese delle Meraviglie, Rizzoli spara in libreria sette edizioni differenti dello stesso libro. O sono libri diversi? La risposta, per chi non l'ha letta su carta, adesso è anche sul sito del Foglio.
sabato 11 luglio 2015
Stanotte è morto il cardinal Giacomo Biffi, uno degli ultimi italiani intelligenti, vescovo di Bologna per vent'anni, prima che scoccasse la ventitreesima ora. Dei tanti motivi per ricordarlo ne scelgo uno secondario: un pamphlet (L'Unità d'Italia, Cantagalli) in occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo del quale avevo parlato in questi termini su Tempi:
Il Risorgimento italiano non è finito nel 1861, con l’unificazione del Regno, né nel 1870, con la presa di Roma, né nel 1918, quando le trincee insegnarono al popolo a parlare quasi la stessa lingua, e nemmeno con l’istituzione della Repubblica corrente nel 1946. Il Risorgimento italiano è finito nel 1954, quando alcuni proprietari terrieri siciliani si videro recapitare dei vaglia di rimborso per i danni che erano stati causati ai possedimenti dei loro nonni dalle scorribande garibaldine del 1860: a quasi cent’anni di distanza dai fatti questi rimborsi irrisori e offensivi, poiché calcolati in base alle lire del secolo prima, diedero ai discendenti dei siciliani che videro passare i Mille l’idea tangibile della sperequazione fra intenzioni e risultati che caratterizza il Risorgimento. A uno sforzo immane che costò ideali e sangue ha fatto seguito un effetto sempre più ridimensionato rispetto alle ambizioni dei patrioti di ogni ordine e grado. Coloro che oggi festeggiano il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione sembrano piuttosto essere i detentori di un’eredità inadeguata: sembrano sventolare esultanti un vaglia da lire centocinquanta.
Il cardinale Giacomo Biffi ha ben intuito questa sproporzione nell’agile volumetto L’unità d’Italia (Cantagalli). Le pagine-chiave del suo pamphlet sono dedicate alla “fine del primato” degli italiani che sembravano funzionare meglio quand’erano divisi: lo testimonia la vitalità del nostro Settecento nella musica, nell’arte, nell’architettura. Sarà un caso ma senza l’Italia una e indivisibile gli italiani erano molto più richiesti alle corti estere, dove riuscivano a incamerare e migliorare generi esistenti e a inventare dal nulla generi sempre nuovi, tornando entro i confini della Penisola e producendo nuove generazioni di musicisti, artisti, architetti italiani che nuovamente volavano da una corte all’altra, di qua e di là dalle Alpi, perpetuando questo circolo virtuoso. Sarà un caso ma il Risorgimento sembra avere ucciso la creatività italiana, sembra averla canalizzata in strettoie impreviste, impigrendo il genio nazionale nonostante si proponesse tutto il contrario. Il card. Biffi avanza l’esempio illuminante della nostra letteratura. In quarant’anni a ridosso del Risorgimento si colloca la produzione di Foscolo, Leopardi e Manzoni, ma dopo la letteratura italiana non raggiungerà mai più risultati paragonabili per qualità e densità. E i musicisti, gli artisti, gli architetti italiani – forse satollati dall’avere una nazione nella quale ostacolarsi e invidiarsi a vicenda su vasta scala – detteranno sempre meno la propria legge oltralpe.
Non si tratta ovviamente di un principio di causa-effetto: la coincidenza temporale può essere anche derivata da una contingenza storica; però via via che s’andava definendo l’intenzione di rendere l’Italia una nazione a sé stante, la speranza era etimologicamente quella di un ri-sorgimento, di una risurrezione, di un popolo che avrebbe rialzato la testa per tornare a occupare presso il consesso delle nazioni il ruolo primario che storicamente gli spettava. Oggi possiamo festeggiare quest’anniversario consapevoli che ciò non è accaduto.
Il Risorgimento italiano non è finito nel 1861, con l’unificazione del Regno, né nel 1870, con la presa di Roma, né nel 1918, quando le trincee insegnarono al popolo a parlare quasi la stessa lingua, e nemmeno con l’istituzione della Repubblica corrente nel 1946. Il Risorgimento italiano è finito nel 1954, quando alcuni proprietari terrieri siciliani si videro recapitare dei vaglia di rimborso per i danni che erano stati causati ai possedimenti dei loro nonni dalle scorribande garibaldine del 1860: a quasi cent’anni di distanza dai fatti questi rimborsi irrisori e offensivi, poiché calcolati in base alle lire del secolo prima, diedero ai discendenti dei siciliani che videro passare i Mille l’idea tangibile della sperequazione fra intenzioni e risultati che caratterizza il Risorgimento. A uno sforzo immane che costò ideali e sangue ha fatto seguito un effetto sempre più ridimensionato rispetto alle ambizioni dei patrioti di ogni ordine e grado. Coloro che oggi festeggiano il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione sembrano piuttosto essere i detentori di un’eredità inadeguata: sembrano sventolare esultanti un vaglia da lire centocinquanta.
Il cardinale Giacomo Biffi ha ben intuito questa sproporzione nell’agile volumetto L’unità d’Italia (Cantagalli). Le pagine-chiave del suo pamphlet sono dedicate alla “fine del primato” degli italiani che sembravano funzionare meglio quand’erano divisi: lo testimonia la vitalità del nostro Settecento nella musica, nell’arte, nell’architettura. Sarà un caso ma senza l’Italia una e indivisibile gli italiani erano molto più richiesti alle corti estere, dove riuscivano a incamerare e migliorare generi esistenti e a inventare dal nulla generi sempre nuovi, tornando entro i confini della Penisola e producendo nuove generazioni di musicisti, artisti, architetti italiani che nuovamente volavano da una corte all’altra, di qua e di là dalle Alpi, perpetuando questo circolo virtuoso. Sarà un caso ma il Risorgimento sembra avere ucciso la creatività italiana, sembra averla canalizzata in strettoie impreviste, impigrendo il genio nazionale nonostante si proponesse tutto il contrario. Il card. Biffi avanza l’esempio illuminante della nostra letteratura. In quarant’anni a ridosso del Risorgimento si colloca la produzione di Foscolo, Leopardi e Manzoni, ma dopo la letteratura italiana non raggiungerà mai più risultati paragonabili per qualità e densità. E i musicisti, gli artisti, gli architetti italiani – forse satollati dall’avere una nazione nella quale ostacolarsi e invidiarsi a vicenda su vasta scala – detteranno sempre meno la propria legge oltralpe.
Non si tratta ovviamente di un principio di causa-effetto: la coincidenza temporale può essere anche derivata da una contingenza storica; però via via che s’andava definendo l’intenzione di rendere l’Italia una nazione a sé stante, la speranza era etimologicamente quella di un ri-sorgimento, di una risurrezione, di un popolo che avrebbe rialzato la testa per tornare a occupare presso il consesso delle nazioni il ruolo primario che storicamente gli spettava. Oggi possiamo festeggiare quest’anniversario consapevoli che ciò non è accaduto.
venerdì 10 luglio 2015
Rizzoli nel Paese delle Meraviglie. Cade il 150° anniversario della pubblicazione dell'Alice di Lewis Carroll e sul Foglio in edicola oggi indago su un mistero dell'editoria italiana (altro che il Premio Strega): perché quest'estate Rizzoli ha mandato contemporaneamente in libreria due diverse versioni del romanzo? perché negli ultimi anni ne ha accumulate sei diverse, e dico sei? come mai Rizzoli ha comprato i diritti della traduzione di Aldo Busi quando già ne aveva in casa altre due di ottimo livello? In omaggio affronto alcune questioni secondarie, ad esempio chi è il vero autore del libro di Lewis Carroll e di che colore erano i capelli di Alice.
giovedì 9 luglio 2015
Ho un nuovo mito: si chiama Savvas Savvopoulos e fa lo psicanalista della crisi greca. Potrebbe averlo inventato un Philip Roth o al limite un Henry Miller ma purtroppo è vero. Sul Corriere di oggi il dottor Savvopoulos interpreta in chiave politico-economica i sogni dei propri pazienti: quello che dormendo si ritrova coinvolto in una rapina in banca durante la quale resta sdraiato sul marciapiede nonostante abbia una pistola in tasca, quella che vede in lontananza su una collina una coppia passeggiare mano nella mano, quello che spara a un soldato tedesco... "La crisi", spiega il dottor Savvopoulos, "ha riattivato antichi conflitti che altrimenti sarebbero rimasti sepolti". Quindi il signore sdraiato fuori dalla banca sogna in realtà il fatto che convenga restarsene tranquilli anziché tormentare le finanze con un memorandum dopo l'altro, e la signora della collina sogna in realtà non solo il fatto che gli altri siano felici e lei no ma, essendoci appunto la collina, oniricamente si ricollega immancabilmente alla propria nonna, che era stata partigiana: il suo non è un sogno romantico triste ma un sogno militante, così come il tizio sdraiato con la pistola in tasca era un raffinato analista dei mercati, mica era solo contento di vedere qualcheduna. Di questa risma sono le interpretazioni del dottor Savvopoulos; quanto a quello che spara al tedesco, pare l'abbia fatto ben prima della crisi - ma lo psicanalista non chiarisce se possa trattarsi di un sogno premonitore. L'oniromante greco è, a spanne, superiore perfino al mio precedente mito, la maga consigliata da Lotito al presidente del Catania Antonino Pulvirenti il quale, intimorito dalla partita in trasferta con l'Avellino, si era deciso a rivolgersi a lei perché più fonti gli avevano assicurato che si trattava di "una maga molto brava e laureata".
mercoledì 8 luglio 2015
Avete comprato la ristampa del primo numero di Linus in allegato a Repubblica? Compratela. Costa cinque euri ma vale quanto un libro e soprattutto serve a dimostrare che cinquant'anni fa la civiltà italiana era più avanzata di oggi. Direte: bella forza, inizia col dialogo pop sul fumetto fra Eco, Del Buono e Vittorini, che per due terzi oggi non ci sono più; non è tuttavia questo il motivo. Allora la dettagliata guida ai Peanuts scritta da Bruno Cavallone, che dedica ai tratti salienti dei personaggi di Schulz un'attenzione ai limiti del proustiano? Nemmeno. Allora cosa? La magistrale storia di Braccio di Ferro in cui Poldo convince delle arpie di essere diventate belle col solo ripetere loro che lo sono, dopo averne ficcato la testa in un secchio di fango? Il tentativo di tradurre Li'l Abner in un italiano che saltelli allo stesso ritmo dello slang? Il tratto naif di Krazy Kat, una trama beckettiana in cui un cane ama un gatto che lo respinge perché ama un topo da cui riceve regolarmente mattonate sulla nuca? Neanche, neanche, neanche. Tutto ciò contribuisce a fare di Linus una rivista di qualità superiore ma solo una cosa mi fa rimpiangere di star vivendo nel 2015 anziché nel 1965: in un articolo non c'è bisogno di note per spiegare chi sia l'immortale Uriah Heep; invece ce n'è bisogno per spiegare cos'è Halloween.
martedì 7 luglio 2015
Non preoccupatevi per quello che scrivo, è colpa del caldo. Però considerate che a margine del referendum greco mi sono venute in mente soltanto le seguenti considerazioni.
Nichi Vendola si è laureato in Lettere presso l'Università di Bari con una tesi, vi sorprenderò, su Pier Paolo Pasolini; ma può darsi che abbia saltato il liceo classico, altrimenti non si sarebbe fatto fotografare garrulo con in mano il cartello della campagna di Sinistra Ecologia e Libertà su cui campeggiava nei colori della bandiera ellenica la scritta "OXIgeNO per la Grecia". Sa che l'alfabeto greco è diverso da quello latino? Sa che quella lettera ics in realtà è una lettera chi? Sa che la campagna del suo partito quindi si pronuncia "Ochigeno per la Grecia"?
Forse sarebbe stato tutto più limpido se sulle schede le due alternative fossero state stampate direttamente in tedesco, magari in onore di Blackadder, vecchia serie tv inglese con Rowan Atkinson ambientata in secoli passati. La stagione dedicata alla prima guerra mondiale culmina nella scena in cui un comandante dell'esercito di Sua Maestà Britannica, timoroso che possano esserci dei tedeschi mimetizzati fra i propri uomini, si avvicina circospetto alla sentinella e gli domanda con fare complice se abbia visto in giro qualche personaggio sospetto. La sentinella scatta sull'attenti rispondendo: "Nein!".
Sulla Provincia Pavese - che nel giro di due giorni è riuscita a stampare che stasera "Antonio Gurrado duialogherà con Mirko Volpi" e che "Mirko Volpi dialogerà con Antonio Gurrado" - un articolo è stato dedicato ai tanti greci di Pavia, tutti favorevoli al no, forse perché a Pavia i bancomat funzionano ancora. Questo, in termini tecnici, si chiama fare i froci col kouros degli altri.
Il titolo sulla prima pagina del Manifesto - "Il momento è dracmatico" - quasi eguaglia il momento di Quelli della notte in cui Nino Frassica raccontava a Renzo Arbore di un suo zio talmente appassionato di teatro che a un certo punto aveva mollato tutto e se n'era andato a Istanbul, per fare il dramma turco.
Infine, abbiamo sottovalutato Varoufakis: credevamo fosse marxista, invece è dadaista.
Nichi Vendola si è laureato in Lettere presso l'Università di Bari con una tesi, vi sorprenderò, su Pier Paolo Pasolini; ma può darsi che abbia saltato il liceo classico, altrimenti non si sarebbe fatto fotografare garrulo con in mano il cartello della campagna di Sinistra Ecologia e Libertà su cui campeggiava nei colori della bandiera ellenica la scritta "OXIgeNO per la Grecia". Sa che l'alfabeto greco è diverso da quello latino? Sa che quella lettera ics in realtà è una lettera chi? Sa che la campagna del suo partito quindi si pronuncia "Ochigeno per la Grecia"?
Forse sarebbe stato tutto più limpido se sulle schede le due alternative fossero state stampate direttamente in tedesco, magari in onore di Blackadder, vecchia serie tv inglese con Rowan Atkinson ambientata in secoli passati. La stagione dedicata alla prima guerra mondiale culmina nella scena in cui un comandante dell'esercito di Sua Maestà Britannica, timoroso che possano esserci dei tedeschi mimetizzati fra i propri uomini, si avvicina circospetto alla sentinella e gli domanda con fare complice se abbia visto in giro qualche personaggio sospetto. La sentinella scatta sull'attenti rispondendo: "Nein!".
Sulla Provincia Pavese - che nel giro di due giorni è riuscita a stampare che stasera "Antonio Gurrado duialogherà con Mirko Volpi" e che "Mirko Volpi dialogerà con Antonio Gurrado" - un articolo è stato dedicato ai tanti greci di Pavia, tutti favorevoli al no, forse perché a Pavia i bancomat funzionano ancora. Questo, in termini tecnici, si chiama fare i froci col kouros degli altri.
Il titolo sulla prima pagina del Manifesto - "Il momento è dracmatico" - quasi eguaglia il momento di Quelli della notte in cui Nino Frassica raccontava a Renzo Arbore di un suo zio talmente appassionato di teatro che a un certo punto aveva mollato tutto e se n'era andato a Istanbul, per fare il dramma turco.
Infine, abbiamo sottovalutato Varoufakis: credevamo fosse marxista, invece è dadaista.
lunedì 6 luglio 2015
Il caldo, l'afa, le zanzare sono la cornice ideale per la presentazione di Oceano Padano di Mirko Volpi (Contromano Laterza), domani martedì 7 luglio alle 21 a Pavia, nel dehors del bar Pane Salame, in Corso Carlo Alberto, di fianco al palazzo centrale dell'Università; e vi va ancora bene perché nel libro si asserisce che "l'Oceano Padano galleggia su tre elementi: acqua, letame e burro", dei quali domani ci saranno solo i due più gentili.
Se intanto volete farvi un'idea del libro e del perché valga la pena di sentirmi mentre ne parlo con l'autore, potete leggere l'articolo che è uscito sabato sul Foglio e che da oggi è disponibile online.
Se intanto volete farvi un'idea del libro e del perché valga la pena di sentirmi mentre ne parlo con l'autore, potete leggere l'articolo che è uscito sabato sul Foglio e che da oggi è disponibile online.
domenica 5 luglio 2015
Se non avete visto Maradona - inteso come film del 2008 di Emir Kusturica - stasera potrebbe essere la volta buona: basta venire a Milano, al Piccolo Teatro di via Rovello 2, dove alle 21 inizia la rassegna cinematografica "Domenica nello sport". Prima del film, anziché il tradizionale documentario sulla pesca della trota in Quebec ci sono io che parlo per un quarto d'ora di Diego Armando, del mio romanzo Ho visto Maradona (Ediciclo), di come la stagione calcistica '89-'90 trasformò irreversibilmente l'Italia e del perché da noi il Milan di Sacchi e Berlusconi è stato il picco massimo di socialismo reale.
sabato 4 luglio 2015
Modesta proposta per
prevenire che i ricchi tedeschi
divengano un fardello
per i greci o per l’Unione Europea
e far sì che siano
utili all’interesse pubblico
È cosa ben triste, per quanti abbiano a cuore la civiltà europea
o abbiano frequentato il liceo classico, vedere le strade di Atene affollate di
donne che domandano l’elemosina con in braccio anche tre, quattro o sei pensionati
tutti vestiti di stracci, e che importunano così i turisti. Penso che tutti siano
d’accordo sul fatto che questa enorme quantità di pensionati, che piangono di
fronte agli uffici postali o cercano di forzare i cancelli delle banche, costituisca
un serio motivo di lamentela, in aggiunta a tanti altri, nelle attuali
deplorevoli condizioni del nostro continente. Per parte mia, dopo aver
riflettuto per molti giorni su questo tema dirimente e aver considerato con
attenzione i piani presentati dal governo Tsipras e dall’Eurogruppo, mi sono
reso conto che vi erano in entrambi grossolani errori di calcolo. È vero, un
greco può nutrirsi di feta per un intero anno solare con l’aggiunta di pochi
altri alimenti, per un valore massimo di spesa ben inferiore ai sessanta euro
al giorno; ma è appunto una volta superato lo scoglio del referendum di domenica
e conseguita la totale sparizione del contante che io propongo che i tedeschi
provvedano ai greci in modo tale da contribuire al nutrimento e in parte al
vestiario di undici milioni di persone.
Presenterò quindi ora umilmente le mie proposte che, voglio sperare, non solleveranno la minima obiezione.
Un irlandese di mia conoscenza, uomo molto istruito e pio, mi ha assicurato che
un tedesco sano e pasciuto è il cibo più delizioso, salubre e nutriente che si
possa trovare, sia in umido, sia arrosto, al forno o lessato; e non dubito che possa
fare la stessa ottima riuscita nella moussaka
o nel pastitsio. Espongo allora alla
considerazione del pubblico che, di ottanta milioni di tedeschi, due possono
essere riservati alla riproduzione della specie, così da non trovarsi in futuro
le dispense sguarnite. Dei restanti settantotto milioni si scarteranno le carni
più vizze, quali appartengono a vegliardi, filosofi e ministri delle finanze;
onde evitare sprechi fuori luogo costoro saranno essiccati, per mezzo in parte della
salatura e in parte della marinatura. Si potranno mangiare così come snack o preparare
come spezzatino con l’aggiunta di un po’ di acqua, un goccio concentrato di
pomodoro, cipolla e aglio selvatici; oppure del tutto disidratati, con qualche foglia
di ortica o spinacio a mo’ di condimento nei mesi più caldi.
I rimanenti svariati milioni verranno suddivisi per
stagionatura. I piccoli tedeschi di un anno di età potranno essere riservati
per le famiglie più in vista di Atene e delle principali città greche, dopo
avere avuto cura di avvertire la madre di farli poppare abbondantemente nel
corso dell’ultimo mese in modo da renderli rotondetti e paffutelli, pronti per
una buona tavola. Un bimbo di Düsseldorf o di Colonia renderà due portate per
un ricevimento fra amici; quando la famiglia pranzerà da sola, il quarto
anteriore o posteriore sarà un piatto di ragionevoli dimensioni e, anche dopo
surgelamento, con un po’ di pepe e sale sarà ottimo bollito, specialmente d’inverno.
Ho calcolato infatti che in media un tedesco appena nato pesa cinque o sei
chili e che in un anno solare, se nutrito passabilmente, arriva al peso standard
di un greco adulto.
I più parsimoniosi (e bisogna ammettere che l’attuale
congiuntura lo impone) potrebbero scuoiare il corpo del tedesco acquistato al
mercato o ricevuto da un ente benefico: la pelle germanica, serica ma
resistente, trattata artificialmente può essere tesa fino a fornire indumenti
freschi ma non per questo ineleganti. Per quanto concerne la città di Atene,
potrebbero apprestarsi mattatoi per codesta bisogna; e possiamo star certi che
non mancheranno i macellai, anche se io vorrei raccomandare di comperare vivi i
tedeschi e di prepararli caldi, così che non perdano il tipico retrogusto di
luppolo.
Una degnissima persona si è compiaciuta oggi di suggerirmi
un perfezionamento al mio progetto. Diceva che, dal momento che molti
gentiluomini greci in questi ultimi tempi hanno perso il lavoro e si ritrovano con
grandi avanzi di tempo libero, sarebbe stato possibile ovviare all’ozio sguinzagliando
per il Peloponneso giovinetti e fanciulle di ogni länder. Tuttavia, pur con la debita deferenza per questo mio
eccellente amico e ingegno di tanto merito, non posso essere completamente d’accordo
con lui. Giovinetti e fanciulle corrono troppo velocemente, per quanto infarciti
di salsiccia e crauti, e l’esercizio fisico può renderne la carne smilza e legnosa.
Meglio sarebbe impiegare all’uopo tedeschi adulti, appesantiti magari da una
vita di agi o da un paio di mandati al Parlamento Europeo, i quali non
opporrebbero troppa resistenza al cacciatore greco e sarebbero bersagli facili
per proiettili sparati anche con una certa qual imprecisione dilettantesca; inoltre
le loro carni più grasse saranno prelibate per chi vorrà rifocillarsi dopo le
fatiche e i rischi della caccia, e non mancheranno greci che vorranno farsi un
vanto di cibarsi di selvaggina pregiata. Come resistere alla tentazione di
bullarsi con gli amici di essere riusciti a prendere al volo un impiegato della
Banca Centrale Europea grosso così, o allo sfoggio di un pingue corpo di kanzlerin adagiato nella sperlunga ancora
nella posizione acquattata in cui la doppietta l’ha colta di sorpresa?
Non è improbabile che persone scrupolose possano criticare
con severità, benché ovviamente in modo ingiusto, la soluzione che propongo per
la crisi greca, reputando che rasenti la crudeltà nonostante sia stata
presentata con le migliori intenzioni. Io ritengo che i vantaggi offerti dalla
mia proposta siano molti e più evidenti di ogni possibile obiezione. Primo: per
mezzo dell’integrazione alimentare sarà possibile realizzare la cooperazione
europea a lungo vagheggiata e vanamente perseguita già nelle intenzioni di De
Gasperi, Schumann e Adenauer. Quando le budella dell’ultimo tedesco saranno
finite nell’ultima sugosa soutzoukakia
di Smirne, l’ideale fondante dell’Unione Europea sarà alfine compiuto. Secondo:
grazie ai bilanci storicamente in ordine, al vertiginoso tasso di occupazione e
al mirabile rapporto deficit/pil della Germania, nessun burocrate di Bruxelles
o Strasburgo potrà mai sognarsi di imporre restrizioni normative includendo la
carne di tedesco nelle sostanze alimentari vietate dall’Unione, alla stregua
della pajata o dei cannolicchi. Terzo: l’abitudine a cotale nutrimento non solo
risolleverà l’economia greca ma eviterà altresì che debba porsi la questione
della progressiva inutilità dei tedeschi; nel giro di pochi anni saremo infatti
portati a domandarci a cosa servano, come dimostra il recente caso del robot
che in uno stabilimento della Volkswagen in Assia ha ucciso un operaio, così avocandosi
liberamente la peculiarità per cui essi sono maggiormente rinomati da decenni
se non da secoli.
Non vedo obiezione possibile alla mia proposta, a meno che
non si insista nel dire che la popolazione dell’Unione Europea in questo modo
diminuirebbe drasticamente. Lo ammetto ben volentieri, ed è questo, di fatto,
uno degli scopi principali del mio progetto. Ciò consentirà infatti di salvaguardare
il continente scampando da altri espedienti: l’innalzamento dello spread, la
tassazione vessatoria delle proprietà immobiliari, l’indisturbata circolazione
di merci provenienti da territori malsicuri, il raddoppio dei prezzi dei beni
di consumo, il prelievo forzoso dai conti correnti, l’introduzione della
sobrietà coatta, l’abolizione della sovranità nazionale e il commissariamento delle
flatulenze. Inoltre l’area al centro del continente, che verrebbe a trovarsi
deserta una volta ultimata la procedura di alimentazione dei cittadini greci,
potrebbe essere agevolmente riattata ad ampio parcheggio.
Questa proposta, quasi interamente nuova, presenta un
progetto solido e concreto, di nessuna spesa e poco disturbo, che rientra
pienamente nelle nostre possibilità di attuazione e non fa torto alla naturale
vocazione germanica a correre in soccorso delle nazioni circonvicine. Dichiaro
con tutta la sincerità del mio cuore che non ho il minimo interesse personale a
cercare di promuovere quest’opera necessaria e che non sono mosso da altro
motivo che il bene generale dell’Unione Europea: non dispongo infatti di tedeschi
dalla vendita dei quali possa propormi di ricavare qualche euro né ho
intenzione di aprire adesso o in futuro un lucrativo ristorante di specialità
greche.
[Se siete riusciti a
leggere fino alla fine, probabilmente avrete riconosciuto una versione
sintetica e con qualche significativa variazione di un pamphlet del 1729: A
Modest Proposal for preventing the children of poor people from being a burthen
to their parents, or the country, and making them beneficial to the publick del decano Jonathan Swift di felice
memoria. La traduzione italiana è uscita da Rizzoli.]
Mirko Volpi è un mio collega in università (tutt'altro settore); ciò nonostante parlo bene del suo libro Oceano Padano. Non solo conferma che la Contromano di Laterza è la migliore collana editoriale italiana ma anche racconta la bassa pavese, lodigiana e cremasca con l'intento di fare letteratura, cioè di scrivere con esattezza semantica in periodi articolati idee non ovinamente asservite allo spirito del tempo, magari al costo di perdere lettori. L'articolo è sul Foglio in edicola oggi.
Presenterò Oceano Padano a Pavia martedì 7 alle 21, nel dehors (ossia de foera) del bar Pane Salame, mangiando bevendo e scacciando zanzare.
Presenterò Oceano Padano a Pavia martedì 7 alle 21, nel dehors (ossia de foera) del bar Pane Salame, mangiando bevendo e scacciando zanzare.
venerdì 3 luglio 2015
Sarà che mi sveglio presto, sarà che per il resto del giorno fa troppo caldo, ma io, da quando stamattina alle otto scarse ho visto che Corrado Augias ha dedicato a Gli ebrei mangiavano carne umana? un box sul Venerdì di Repubblica, non sto facendo altro che fissare il telefono in attesa che squilli portandomi un invito da Fabio Fazio.
giovedì 2 luglio 2015
Contro il logorio della donna moderna, sul Foglio in edicola oggi leggo Come sedurre le donne di Filippo Tommaso Marinetti (Bur Rizzoli) e Con le donne monologo spesso di Karl Kraus (Elliot) per scatenarmi contro il femminismo e il secolare errore dell'amicizia fra uomo e donna - salvo poi rassegnarmi al fatto che gli ultimi cent'anni sono passati invano.
[Disponibile anche online sul sito del Foglio, e gratis per giunta.]
[Disponibile anche online sul sito del Foglio, e gratis per giunta.]
mercoledì 1 luglio 2015
Racconta Svetonio nelle Vite dei Cesari (e lo riferisce anche lo splendido Raffaele La Capria in Capri e non più Capri, che Mondadori pubblicò nel '91) che un lontano giorno un pescatore campano si presentò davanti a Tiberio per omaggiare a sorpresa l'imperatore con una triglia lucente e fresca. Tiberio però riteneva l'irraggiungibilità dell'imperatore più sacra di qualsiasi omaggio quindi per punizione fece strofinare la triglia da un energico servo sul viso del visitatore importuno, così imparava. Mi è tornato in mente l'episodio ieri sera quando ho notato che un politico aveva ritwittato un'ingiuria ricevuta da un anonimo insultatore; non sapendo se il politico l'avesse resa pubblica per masochismo o per dileggio, o per certificare la propria sopravvenuta fama, sono andato a spulciare il profilo dell'anonimo notando che la perizia e la dedizione con cui s'industria quotidianamente nell'oltraggiare personaggi pubblici rasenta il professionale. Ha una predilezione per Maurizio Gasparri, col quale intrattiene un dialogo degno di Alfred Jarry resosi ormai sofisticato pur nella totale assenza di risposte, nonché per Angelino Alfano, del volto del quale propone un utilizzo alternativo per cui sarebbe più funzionale la liscia ceramica, mentre alle esponenti del governo in carica (pur non dimentico del breve mandato di Federica Mogherini) rivolge inviti per attività alternative alla politica che, benché potenzialmente gradevoli, denotano una certa confusione col talento di Sara Tommasi, alla quale sovente indirizza vituperi complimentosi dai confini sfumati scagliandosi invece con acrimonia e gelosia incontenibili contro il suo partner che sfida a chi pippa più piste pur ammonendolo che la droga distrugge il cervello. A Cécile Kyenge si limita a ripetere "Hai rotto il cazzo" a intervalli regolari. Ogni volta che si rivolge a un esponente politico, inoltre, l'anonimo ha cura di inviare il tweet in copia carbone anche all'account ufficiale del partito in cui milita l'oltraggiato. Ebbene, l'imperatore Tiberio essendo morto nel 37 d. C. non dispone di un account twitter come invece un Obama qualsiasi; suppongo tuttavia che sarebbe stato ben capace di reagire da par suo. Tanto per dire: quando il pescatore, cessato finalmente il tormento e mandato via con il viso pieno di squame, ebbe la brillante idea di commentare "Meno male che non gli ho regalato un'aragosta", l'imperatore se ne fece portare una repente e provvide a farla sfregare sul malcapitato fino a che il viso non divenne una maschera di sangue. Così riuscì nell'intento di preservare la sacralità dei governanti con una frase - "Portate l'aragosta", "Marinam locustam ferte" - molto molto più breve di 140 caratteri.
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